QUEL LUMINOSO GIUDIZIO CHE CI SALVA
Il racconto che la liturgia di questa domenica mette sotto i nostri occhi è il celebre episodio della guarigione del nato cieco. La densità simbolica del segno che Gesù compie è molto importante. La lunghezza narrativa e le varie le chiavi di lettura possibili ne sono la prova. Mi limito a commentarlo sulla falsariga delle antitesi verbali “sapere/non sapere” e “vedere/non vedere” che percorrono il cuore del racconto. Il cieco nato viene graziato dal Signore mentre i discepoli gli pongono una domanda che riflette il pensiero religioso più comune: se uno si trova addosso una menomazione avrà sicuramente peccato o ereditato il peccato da qualche familiare, allora dicci come stanno le cose per costui. Questo modo di parlare e vedere la condizione di un uomo menomato viene capovolta da Gesù (Gv 9,3). E qui c’è già tutta la sfida della fede. Vedere qualcosa che ci ha fatto male o comunque che ci ha segnato, non più come un errore da cancellare, ma come luogo in cui Dio ci vuole parlare, un luogo in cui si vuole rivelare. E dunque venire a contatto con una sapienza nuova.
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La vicenda si complica a causa delle varie reazioni dei vicini e dei farisei che si imbattono nell’uomo guarito dalla sua cecità. C’è chi lo riconosce e chi non lo riconosce, c’è chi si interroga e c’è chi si incarta nelle proprie convinzioni, negando di trovarsi di fronte a un miracolo. Inizia un dissenso tra le persone che per prime si trovano a interrogare l’ex-cieco. Questo però gli permette di raccontare come sono andate le cose. Ma alla domanda che chiede dove si trovi Gesù, suo benefattore, egli non sa rispondere. È il primo di una serie di “non so” che compare sulle labbra dell’uomo guarito (Gv 9,12). Penso che persino Socrate si sarebbe decisamente interessato di costui e della sua testimonianza, se come uomo e filosofo diceva che l’unica cosa certa che sapeva, era “sapere di non sapere”. E poi, davanti a un uomo che ha recuperato la vista, non si dovrebbe partire dal bene insperato che egli ha ricevuto? Noi esseri umani siamo spesso degli animali strani. Se qualcosa non rientra subito nella nostra logica siamo capaci di chiuderci nelle nostre 3-4 convinzioni, arrivando a sconfessare persino l’evidenza: ma i Giudei non credettero di lui che fosse stato cieco e che avesse acquistato la vista. E si va a caccia di un sostegno alle proprie orgogliose (e quindi stupide) tesi, tormentando anche l’anima di chi potrebbe godere con l’interessato di quanto accaduto. Come quella dei genitori di quell’ex-cieco che, sottoposti al pressante interrogatorio dei giudei, vengono sopraffatti più dalla paura che dalla sorpresa di ritrovare il proprio figlio guarito (Gv 9,19-23). Ma nemmeno la sincera confessione di costoro scalfisce la loro presunzione. Nel religioso è nascosto il volto più nauseante del potere. Che però non potrà restare a lungo nascosto.
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Nell’ultimo interrogatorio infatti, esce allo scoperto: da gloria a Dio! Noi sappiamo che quest’uomo è un peccatore (Gv 9,24). Ecco la sicurezza (falsa) di chi vive la religione con il suo sapere per dominare sulle coscienze, pronto a giudicare sempre tutto e tutti, elevandosi sugli altri fino al disprezzo e all’arroganza di escluderli dalla comunità (Gv 9,25-34). Tuttavia, la finissima ironia dell’evangelista mette in risalto, per contrasto, cosa significhi la condizione di quell’uomo beneficato da Dio che non si capacita delle continue interrogazioni a cui è sottoposto: egli che ha accolto il suo dono, anche se dichiarandosi insipiente sull’identità del benefattore, già ne condivide il destino sofferente rimanendo lucido (= nella luce) nel suo ragionamento. Ogni uomo che incontra la bontà di Dio e si incammina nella sua conoscenza, sperimenta subito l’opposizione e l’esclusione del mondo. Chi infatti serve le logiche della mentalità di questo mondo, non sa rallegrarsi del bene altrui, né lo persegue. Anzi, lo sente come una minaccia e non può accettarne la testimonianza: sei nato tutto nei peccati e vuoi insegnare a noi? (Gv 9,34)
Il finale del vangelo ci aiuta a comprendere cosa c’è in ballo per uno che vuole occuparsi seriamente della fede in Cristo. In ballo c’è un’immagine di Dio e un’immagine dell’uomo, il servire/amare Dio o un sistema religioso satanico, la sapienza di questo mondo o la sapienza della croce, conoscere realmente chi è Dio o conoscere soltanto le nostre idee su di Lui, credere o non credere al Signore Gesù. Oppure, come direbbe lo stesso Giovanni evangelista, scegliere la luce o preferire le tenebre (cfr. Gv 3,19) Egli infatti, dopo aver completato la sua opera nel raggiungere il cuore dell’uomo guarito con ben altra domanda (Gv 9,35), non lascia adito a dubbi su ciò che le sue opere compiono tra gli uomini, al di là del bene immediato che procura: è per un giudizio che io sono venuto in questo mondo, perché coloro che non vedono, vedano; e quelli che vedono, diventino ciechi (Gv 9,39). Un giudizio misericordioso quello di Dio, anche se a una prima lettura di questi versetti può sembrare il contrario. Perché solo chi ammette di non vedere può permettere alla luce di fargli vedere. Ma a chi si dichiara vedente mentre vive nelle tenebre, il miglior servizio che gli possa fare la luce è quello di accecarlo. Forse allora, con il tempo e in libertà, scoprirà di essere spiritualmente cieco dalla nascita e sceglierà la luce. Come avvenne un giorno a Saulo di Tarso sulla via di Damasco. Diversamente, come ci dice Gesù, il peccato rimane in chi preferisce restare nelle tenebre e non lasciarsi guarire (Gv 9,41).
AUTORE: d. Giacomo Falco Brini
FONTE: PREDICATELO SUI TETTI