Non c’è che una tristezza…
Lo scrittore francese Léon Bloy, divenuto un fervente cattolico dopo essere stato un violento anticlericale e un “poeta maledetto” alla Baudelaire, se ne uscì un giorno con una frase, che divenne poi meritatamente celebre: «Non c’è una tristezza: quella non essere santi!».
Queste parole possono all’inizio destare perplessità. Si potrebbe obiettare: «Non è vero! Ci sono molte altre tristezze a questo mondo!». Questo è vero e Bloy non lo nega. Egli afferma, piuttosto, che tutte le tristezze hanno la stessa “radice”: hanno a che fare con una “chiamata” che Dio rivolge a ogni uomo. La “santità”, ricordiamolo, non consiste nell’avere un’aureola sulla testa, ma nel realizzare ciò per cui siamo al mondo. E, pur attraverso infinite strade diverse, il fine ultimo della vita è uno solo: la “perfezione dell’amore”, che è una delle definizione teologicamente più belle esatte di “santità” (cf. Catechismo della Chiesa Cattolica n. 1709). Ne consegue che dire “santità” equivale a dire “felicità”.
Per un cristiano la santità non è un “fare” o “conoscere” delle cose, ma incontrare Cristo, amarlo e seguirlo. Lui è “la Luce vera che illumina ogni uomo” (Gv 1,9). Lui è “la verità” dell’uomo. Perciò, la tristezza, nelle sue infinite forme, è un dire di no, in forma esplicita o implicita, con le parole o con la condotta di vita, a Cristo. La tristezza è dire di no alla chiamata originaria e fondamentale alla santità. Bloy ha quindi pienamente ragione!
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Ed è il motivo per il “giovane ricco” del vangelo di oggi, in nome del “dio-denaro”, dice di no a Gesù: «si fece scuro in volto e se ne andò rattristato».
Don Francesco