IL FARMACO PER LA SOLITUDINE
Un uomo guarito dalla lebbra è il protagonista del vangelo di questa domenica. La condizione dei lebbrosi era ai tempi di Gesù particolarmente triste, non solo in ragione della grave malattia da cui erano colpiti, ma anche per il fatto che vivevano isolati, ai margini della comunità, in “lockdown” per tutta la vita.
Nella Scrittura la lebbra è un simbolo della più terribile delle malattie: il “peccato”, che non solo tiranneggia l’anima con “dolori spirituali” (sconforto, sensi di colpa, paturnie, pensieri malvagi, invidia, gelosia, ecc.), ma provoca solitudine e isolamento dagli altri. Questo può sembrare strano, perché una persona che “vive nel peccato” non è necessariamente isolata, anzi al contrario, può essere spesso in compagnia di altri e divertirsi. Ma questo non significa che non sia una persona sola. Anzi, a volte avvertiamo il bisogno di cercare gli altri perché ci sentiamo soli e non stiamo bene con noi stessi.
Lo psichiatra Tonino Cantelmi ha scritto: «Siamo sempre più connessi, più informati, più stimolati ma esistenzialmente sempre più soli!». E Mark Twain affermava: «La peggior solitudine è non essere a proprio agio con se stessi», mentre non siamo mai veramente soli quando stiamo bene con noi stessi.
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Gesù ci guarisce dalla “lebbra” della solitudine rivelandoci la nostra dignità di “figli di Dio”, destinatari di un Amore indistruttibile. Chi sa trovare in Dio un Amore che colma le esigenze più profonde del proprio cuore è in grado di rapportarsi con gli altri con libertà, senza frustranti aspettative, senza aspettarsi nulla, ma con il solo desiderio di essere strumento di Colui che guarisce i cuori “con le proprie piaghe” (Is 53,5).
Papa Benedetto XVI insegnava: «Chi crede in Dio non è mai solo. Nonlo ènellavitae nonloènella morte».
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