«Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?»
«Che cosa ho fatto di male per meritarmi questo?». È a questa domanda – che forse anche noi a volte ci siamo posti – che risponde il vangelo di oggi, in cui i discepoli riferiscono a Gesù del fatto drammatico di alcuni Galilei uccisi da Pilato, mentre offrivano un sacrificio.
«Credete che quei Galilei fossero più peccatori di tutti i Galilei, per aver subito tale sorte? No, io vi dico!».
Con queste parole il Signore smonta ogni legame diretto tra la colpa personale e le sciagure umane e si oppone a ogni “logica del karma”, che è alla base di molte regioni orientali… e non solo.
Per essere ancora più chiaro, Gesù riporta anche l’esempio di una disgrazia che non dipende dalla malvagità umana. Dice: «Credete che quelle diciotto persone, sulle quali crollò la torre di Sìloe e le uccise, fossero più colpevoli di tutti gli abitanti di Gerusalemme? No, io vi dico!».
La Scrittura afferma chiaramente che «Dio non ha creato la morte e non gode per la rovina dei viventi» (Sap 1,13). Attribuire direttamente a Dio il male e la sofferenza è una blasfemia. Nondimeno, è fuori di dubbio che Dio permetta che il male, la sofferenza e la cattiveria continuino a esistere nel mondo, fino alla venuta di Gesù alla fine dei tempi. Perché?
Sant’Agostino risponde in questo modo: «Dio, essendo sommamente buono, non lascerebbe assolutamente sussistere alcunché di male nelle sue opere, se non fosse talmente onnipotente e buono fino al punto da ricavare il bene persino dal male. […] Non c’è dubbio che Dio opera sempre il bene, anche quando permette che accada tutto ciò che di male accade. È solo per un giusto giudizio che Egli lo permette, ed è certamente buono tutto quel che è giusto» (Enchiridion de Fide, Spe et Charitate liber unus, 95).
C’è un bene infinitamente più grande di ogni male terreno, che è la salvezza eterna. La salvezza eterna dell’umanità è scaturita dalla Croce di Cristo, così chi crede in Gesù sa che Dio è in grado, con la sua “Onnipotenza d’Amore”, può trasformare ogni croce della propria vita in “scala del paradiso”.
Non si tratta, però, di un passaggio automatico. Dipende dalla nostra scelta di trarre lezione dalle contrarietà della vita e di far sì che esse ci spingano alla conversione.
Ad esempio la guerra – che è drammaticamente davanti i nostri occhi ogni giorno! -, le calamità, la malattia e ogni genere di sofferenza ci dovrebbero aiutare a comprendere che la vita terrena è “imperfetta”, non è “l’unica vita” e nemmeno “la vita” nel senso pieno del termine! È un passaggio alla vita piena ed eterna e la via sicura per entrare nella vita eterna è rinunciare al peccato e credere in Gesù Cristo (cf. Promesse battesimali!), mostrandolo con opere di conversione.
Per questo Gesù dice: «No, io vi dico… ma se non vi convertite, perirete tutti allo stesso modo». «Perirete allo stesso modo» non ovviamente nel senso che chi non si converte morirà tragicamente, ma nel senso che se non ci convertiamo ci accadrà ciò che temiamo maggiormente dal punto di vista umano: una fine tragica, orribile; questa fine davvero preoccupante non consiste nella morte violenta ma in quella che san Francesco d’Assisi chiama – nel suo Cantico di Frate Sole – la “seconda morte”, cioè la perdizione eterna dell’anima, che in realtà inizia già in questa vita laddove c’è odio, malvagità, violenza gratuita, egoismo, disperazione e angoscia.
Convertiamoci, dunque, e torniamo a Dio che – come proclama il Salmo di questa domenica – «perdona tutte le tue colpe, guarisce tutte le tue infermità, salva dalla fossa la tua vita, ti circonda di bontà e misericordia!». Allora la nostra vita non sarà come il fico sterile di cui parla la parabola evangelica. Se ci convertiamo porteremo per noi stessi e per gli altri frutti spirituali in abbondanza. Quali frutti? «Il frutto dello Spirito è amore, gioia, pace, magnanimità, benevolenza, bontà, fedeltà, mitezza e dominio di sé» (Gal 5,22).