Il tempo della fede
Giobbe conosce il Signore mentre gli parla «in mezzo all’uragano». Infatti, esclama: «Io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto» (cf. Gb 38,1; 42,5)
Così avviene ai discepoli di Gesù nel brano evangelico di questa domenica. «Ci fu una grande tempesta di vento e le onde si rovesciavano nella barca, tanto che ormai era piena. Egli se ne stava a poppa, sul cuscino, e dormiva. Allora lo svegliarono e gli dissero: “Maestro, non t’importa che siamo perduti?”».
Lo chiamano “Maestro” perché fino a poco prima egli era per loro colui che insegnava i segreti del Regno di Dio in parabole. Ma è per mezzo di questa esperienza drammatica che essi acquisiscono una nuova conoscenza di Gesù: intuiscono che Dio stesso opera in Lui, perché nessuno se non Dio soltanto può comandare al mare.
È interessante qui il parallelismo con il primo intervento straordinario di Gesù nel Vangelo di Marco: un esorcismo nella sinagoga di Cafarnao. Il comando allo spirito impuro è lo stesso che rivolge al vento: «Taci!». Si legge nella prima lettura, dal libro di Giobbe: «Fin qui giungerai e non oltre e qui s’infrangerà l’orgoglio delle tue onde?». Dio pone quindi un limite invalicabile alla potenza mortifera di satana.
Il mare è un simbolo delle forze del male che insidiano la nostra vita.
Ci sono momenti in cui abbiamo l’impressione di affondare. In cui il male pare prendere il sopravvento. Dio non interviene, sembra che dorma. Ed è in quei momenti che scaturisce dal nostro cuore il grido di fede più bello e accorato: «…non t’importa che siamo perduti?». Dio ha bisogno del nostro grido per intervenire. Non perché non sappia che siamo in pericolo, ma perché la sua grazia non può operare senza il desiderio umano. I cerbiatti quando rimangono soli e avvertono il minimo pericolo fanno un verso, simile a un forte miagolio, per richiamare l’attenzione della mamma e la mamma subito viene in loro aiuto. Così, quando nelle tempeste della vita gridiamo verso Dio, egli non ci lascia mancare il suo soccorso paterno. Non solo: proprio grazie al nostro grido di fede “in mezzo alla tempesta” possiamo approfondire la conoscenza del vero volto di Dio. È in mezzo alle grandi prove della vita che noi possiamo maggiormente crescere nella fede e nella conoscenza di Dio!
Gesù rimprovera i discepoli dicendo loro: «Perché avete paura? Non avete ancora fede?». Avere fede è sapere che la propria vita riposa nelle mani di Dio, che non ci può accadere nulla di male, perché il peggiore dei mali, la morte, è stato vinto da Cristo.
La fede nasce dall’esperienza di essere amati follemente da Dio in Cristo. Come scrive san Paolo: «Questa vita, che io vivo nel corpo, la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha consegnato se stesso per me» (Gal 2,20). Se Cristo mi ha amato fino a morire per me, di che cosa devo avere paura? Sono ormai una creatura nuova. Come direbbe la Serva di Dio Chiara Corbella: «Siamo nati e non moriremo mai più!».
È in questo orizzonte che possiamo comprendere le stupende parole di Paolo, nella seconda lettura di oggi: «Fratelli, l’amore del Cristo ci possiede; e noi sappiamo bene che uno è morto per tutti, dunque tutti sono morti. Ed egli è morto per tutti, perché quelli che vivono non vivano più per se stessi, ma per colui che è morto e risorto per loro…., se uno è in Cristo, è una nuova creatura; le cose vecchie sono passate; ecco, ne sono nate di nuove!».
È passato il tempo della paura. È iniziato il tempo della fede!