Il Signore Gesù si presenta a noi come il buon pastore, colui che difende dal pericolo le sue pecore e le conduce ai pascoli della vita, invitandole a seguirlo con fiduciosa sicurezza nel cammino sul quale le precede e le accompagna. Un’immagine troppo lontana per parlare agli uomini del nostro tempo? In realtà le due caratteristiche che connotano Gesù come il vero buon pastore, ci aiutano a operare un discernimento tra le molte proposte che la società odierna avanza, trovandoci spesso sprovveduti.
Gesù afferma innanzitutto che il buon pastore offre la vita per le pecore, non solo a parole, ma con i fatti. Quante dottrine, quanti maestri di sapienza o di scienza si affacciano alla ribalta e promettono di portarci lontano, verso una piena realizzazione. Ma chi può liberare l’uomo dalla più pesante schiavitù, da ogni altra deriva, da ogni peccato? Gesù offre la sua vita per risvegliare noi e portarci a una vita dagli orizzonti infiniti, piena di speranza e di bellezza. E ancora, egli conosce le sue pecore, entra con loro in una relazione che è come quella che lo unisce al Padre, una relazione d’amore totale da personalizzare l’altro, da renderlo capace di esprimersi in pienezza nel dono di sé.
Se accogliamo la vita che il buon pastore offre per noi, se vogliamo lasciarci condurre da lui a un rapporto di conoscenza e comunione d’amore, sin da ora potremo scoprire la meraviglia di essere realmente figli del Padre. Non induriamo il nostro cuore, scartando quella pietra angolare che Dio ha posto a fondamento dell’umanità nuova: Cristo è l’unica vera salvezza dell’uomo. Mettiamo i nostri passi nelle sue orme sicure!
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«E ho altre pecore che non sono di questo ovile; anche queste io devo condurre: ascolteranno la mia voce e ci sarà un solo ovile e un solo pastore» (Gv 10,16). La pecora, un animale soffice nel corpo e nella lana, è chiamata in latino ovis, da oblazione (offerta), perché all’inizio non si offrivano in sacrificio tori ma pecore. Le pecore sono i fedeli della chiesa di Cristo, che ogni giorno, sull’altare della passione del Signore e nel sacrificio del cuore contrito, offrono sé stessi quale ostia pura, santa e a Dio gradita (cf. Rm 12,1).
«Ho altre pecore», cioè i gentili (i pagani) «che non sono di questo ovile», non sono del popolo di Israele; «anche queste io debbo condurre» per mezzo degli apostoli, «e ci sarà un solo ovile e un solo pastore». E questa è la Chiesa, riunita e formata da entrambi i popoli. Gesù Cristo ci pasce ogni giorno con gli insegnamenti evangelici e con i sacramenti della chiesa; ci ha radunati con il suo braccio, disteso sulla croce. Ti preghiamo, dunque, Signore Gesù, tu che sei il buon pastore, di custodire noi, tue pecore, di difenderci dal mercenario e dal lupo, e di incoronarci nel tuo regno con la corona dell’eterna vita. Degnati di concedercelo tu che sei benedetto, glorioso e degno di lode per i secoli dei secoli. E ogni pecorella, ogni anima fedele dica: Amen. Alleluia! (Antonio di Padova, Sermone II Domenica dopo Pasqua)
In questa Domenica del Buon Pastore ricorre anche la 61° Giornata Mondiale di preghiera per le vocazioni. Come non ricordare le parole dell’indimenticabile Papa Benedetto XVI: “Il sacerdote, certamente uomo della Parola divina e del sacro, deve oggi più che mai essere uomo della gioia e della speranza. Avremo presto, preti ridotti al ruolo di assistenti sociali e il messaggio di fede ridotto a visione politica.
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Tutto sembrerà perduto, ma al momento opportuno, proprio nella fase più drammatica della crisi, la Chiesa rinascerà. Sarà più piccola, più povera, quasi catacombale, ma anche più santa. Perché non sarà più la Chiesa di chi cerca di piacere al mondo, ma la Chiesa dei fedeli a Dio e alla sua legge eterna. La rinascita sarà opera di un piccolo resto, apparentemente insignificante eppure indomito, passato attraverso un processo di purificazione. Perché è così che opera Dio.
Contro il male, resiste un piccolo gregge. La nostra vocazione sacerdotale è un tesoro che conserviamo in vasi di creta. San Paolo ha espresso felicemente l’infinita distanza che esiste fra la nostra vocazione e la povertà delle risposte che possiamo dare a Dio. Noi udiamo ancora e conserviamo nell’intimo del nostro cuore la commovente e fiduciosa esclamazione dell’Apostolo che dice: “Quando sono debole, è allora che sono forte”.
La consapevolezza di questa debolezza apre all’intimità di Dio che dà forza e gioia. Più il sacerdote persevererà nell’amicizia di Dio, più continuerà l’opera del Redentore sulla terra. Il sacerdote non è per sé stesso, ma per tutti”.
Ed è proprio così: la vita del sacerdote è tra l’altare, il tabernacolo e il confessionale.
A cura di don Donato della Pietra.