don Cristiano Mauri – Commento al Vangelo del 3 Novembre 2020

Pieni e vuoti

Il commento al Vangelo del giorno di don Cristiano Mauri.

Note per la comprensione del brano.

Gesù si trova nella casa di uno dei capi dei farisei, invitato per il pranzo che normalmente seguiva la preghiera in sinagoga. L’atmosfera non è tranquilla: i farisei lo tengono d’occhio attendendo un qualsiasi passo falso per poterlo attaccare.

L’esclamazione di uno dei commensali apre il brano odierno. Un detto noto, che tradisce la convinzione di far parte a pieno titolo della schiera degli eletti. È lo spunto che serve a Gesù per raccontare una nuova parabola, che parla di una festa, di invitati maleducati, di poveri beneficati.

Un uomo – non si tratta di un re stavolta ma di un probabile benestante – indice un grande ricevimento, senza apparente motivo se non quello di far festa.

In occasione dei banchetti, era usanza della aristocrazia orientale diramare per mezzo di servi preposti degli inviti in forma scritta privata. A coloro che accettavano l’invito veniva poi fatto un “richiamo orale”, a ridosso dell’evento, sempre inviando la servitù.

Molti giorni separavano l’invito ufficiale dal richiamo dei servi, ma questa seconda chiamata era comunque considerata pura formalità e cortesia perché, una volta accettato il primo invito, la partecipazione era data quasi scontata.

Un rifiuto, con annesse giustificazioni e scuse, andava presentato in prima istanza, immediatamente a seguito dell’invito scritto. Farlo al passaggio dei servi era gesto offensivo e di grande mancanza di educazione.

Le scuse risultano, ovviamente, pretestuose. Ripropongono, forse, le ragioni considerate valide per non partecipare alle guerre, dunque totalmente fuori luogo.

Sullo sfondo della parabola, sembra esserci un brano del capitolo 1 del profeta Sofonia nel quale troviamo una forte accusa rivolta ai capi di Israele che hanno smesso di occuparsi di Dio e del suo popolo, per gonfiarsi solo del loro potere.

La parabola critica con tutta probabilità una certa concezione dell’elezione di Israele. Gli amici del padrone di casa ricordano proprio le guide del popolo con la loro presunzione di salvezza.

Il padrone è preso dalla collera: il rifiuto degli invitati lo colpisce personalmente e direttamente. La decisione è presa: la casa va riempita in un modo o nell’altro e l’attenzione ora viene così rivolta ai miseri.

Di nuovo risuona forte l’annuncio della destinazione ai poveri del Regno di Dio. Sembra che per questi ultimi ci sia sempre posto e che nessuno di essi debba rischiare di restare escluso.

La constatazione dei posti rimasti liberi spinge il padrone ad inviare di nuovo il suo servo, invitandolo ad usare perfino la forza, non da intendersi come coercizione ma come la dolce e cordiale insistenza di chi vuol convincere un ospite esitante.

La conclusione porta con sé un po’ di amaro. Nel fatto che i primi invitati restino fuori, però, non possiamo e non dobbiamo leggere una soddisfazione vendicativa, bensì la constatazione sofferta delle conseguenze di una scelta scellerata.

Spunti per la riflessione sul testo.

L’esclamazione del commensale è piena della presunzione di chi già crede di sedere alla tavola dell’incontro, fiero degli abiti paludati della sua religiosità.

Ma la parabola ribalta ancora una volta la prospettiva. Ciò che conta è l’incontro vivo con il Signore e quei paludamenti di presuntuoso attivismo religioso ne sono il primo ostacolo, che vale quanto una giustificazione falsa e irriguardosa come quelle della parabola.

Gli impresentabili che nulla hanno, nulla fanno e nulla sono, forti di quel nulla e avvezzi alla precarietà dell’elemosina, non hanno filtri né sicurezze che impediscano l’incontro.

Per questo a chi è come loro appartiene il Regno di Dio.

Trovo le parole di John Main, che qui sotto riporto, un giusto commento a questa parabola.

«Le persone religiose hanno sempre avuto la pretesa di possedere tutte le risposte. Hanno visto la loro missione come quella di dover persuadere, imporre, appianare le differenze e forse perfino obbligare all’uniformità.

Ma quando la religione comincia ad intimidire o a voler insinuare, allora ha perso la sua spiritualità perché il primo dono dello Spirito, che opera in modo creativo nella natura umana, è libertà e franchezza: nel linguaggio biblico, Libertà e Verità.

Non siamo maestri che danno risposte da quarta di copertina. Siamo maestri davvero quando, avendo trovato il nostro spirito, possiamo ispirare gli altri ad accettare la responsabilità del loro essere per sottoporsi alla sfida del loro desiderio innato di Assoluto, per trovare il loro spirito.»

«La nostra tendenza è spesso quella di optare per la sicurezza statica di un ordine costituito, ciò che conosciamo e con cui ci sentiamo sicuri. La tragedia di una tale opzione è che non ci permette nemmeno di rimanere statici: subiamo un declino perché abbiamo scelto di eludere la sola realtà certa che vi sia – la roccia di Cristo, l’energia dinamica di Dio, la libertà gloriosa dei figli di Dio.»

«La riscoperta di cui abbiamo bisogno oggi non è di carattere essenzialmente religioso. Ciò di cui abbiamo bisogno è un’esperienza di profondità per riempire ancora una volta la superficie di identità, di significato, di scopo e di forma.

Si ha questa esperienza quando prendiamo contatto con la nostra natura spirituale interiore, quando entriamo nel centro più profondo del nostro essere, dove lo Spirito di Dio, Dio in tutta la sua pienezza, dimora nell’amore. 

Da quel contatto – e la parola è «contatto» più che «contemplazione» – sorge un senso spirituale profondamente radicato e sano, che si esprimerà in modo naturale in tutta la gamma delle nostre risposte alla realtà.» (J. Main, Abbracciare il mondo, Morcelliana). […] Continua qui…

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