Digiuno forzato
Il commento al Vangelo del giorno di don Cristiano Mauri.
Ci troviamo sulla scena di un banchetto di Gesù coi pubblicani. È un luogo di familiarità e accoglienza ma anche teatro di uno scontro.
I farisei si sono fatti sentire polemicamente, mettendo in discussione il comportamento di Gesù, reo, ai loro occhi, di non rispettare le abitudini circa la purità.
L’avevano già attaccato prima ancora della chiamata di Matteo e del banchetto seguente, quando, guarendo un paralitico, Gesù gli aveva anche perdonato i peccati.
Benché avessero tenuto per sé il loro giudizio su di Lui («Costui bestemmia»), Gesù aveva letto i loro cuori smascherandoli immediatamente («Perché pensate il male dentro di voi?).
Il contesto di Mt 9, 2-17, da cui è preso il brano odierno, è dunque quello di uno scontro ormai aperto tra Gesù e Israele, nell’occasione rappresentato dai farisei.
Anche i discepoli del Battista sembrano subire il clima di tensione e si associano ai farisei nel porre la questione del digiuno che anch’essi praticavano con zelo, oltre il minimo previsto dalla Legge.
La risposta di Gesù non è di facile interpretazione e resta comunque enigmatica.
I lettori di Matteo certamente hanno identificato Cristo con lo sposo. Poi si parla di due tempi: uno, di gioia, in presenza dello sposo e uno di lutto in sua assenza.
Difficile non vedere un rinvio alla Pasqua di Gesù, dunque della sua assenza. Il tempo del lutto e del digiuno è da intendersi dunque come quello che passa tra la resurrezione di Cristo e il suo ritorno alla fine dei tempi?
Verrebbe da dire di sì, ma ’ipotesi non regge, perché il finale di Matteo (28, 20) indica quel tempo come quello della presenza viva e vera del Signore in mezzo ai suoi, «tutti i giorni, fino alla fine del mondo», non della sua mancanza.
Inoltre, le parabole delle dieci vergini e dei talenti (Mt 25, 1-30) che seguono il discorso escatologico e precedono l’allegoria del Giudizio finale, parlano certo di un tempo di assenza, ma invitando all’operosità e vigilanza, non certo al lutto.
C’è qui certamente una traccia del fatto che le prime comunità cristiane ancora praticavano il digiuno settimanale, ma non si può certo costruirvi sopra una teologia dell’astinenza.
Quel che si può raccogliere come messaggio universalmente valido è che se di digiuno si vuol parlare, occorre farlo a partire dalla volontà di Gesù già descritta da Matteo in 6, 16-18: «E quando digiunate, non assumete aria malinconica come gli ipocriti, che si sfigurano la faccia per far vedere agli uomini che digiunano. In verità vi dico: hanno già ricevuto la loro ricompensa. Tu invece, quando digiuni, profumati la testa e lavati il volto, perché la gente non veda che tu digiuni, ma solo tuo Padre che è nel segreto; e il Padre tuo, che vede nel segreto, ti ricompenserà».
Spunti per la riflessione sul testo.
Col digiuno volontario son capaci tutti, anche di rispettare l’invito di Gesù a non far le facce afflitte per qualche giorno a pane e acqua.
Con le astinenze forzate è tutta un’altra cosa.
Quando si deve rinunciare, senza alcuna possibilità di scelta, a ciò che occorre per vivere.
Cibo, riparo, vestito, sicurezza, salute, affetti, opportunità, dignità, futuro.
Lì tocca fare i conti, oltre che con la “fame”, pure con la rabbia dell’ingiustizia subita.
Il digiuno che anziché affinare lo spirito lo avvelena e lo ammala di domande severe sull’umanità, sul mondo, su Dio.
Un dramma doppio, davanti al quale le rinunce fatte «per cercare Dio e l’essenziale della vita» o per «allenare la volontà e lo spirito di sacrificio» non posso che arrossire.
Farsi carico dei digiuni forzati, con ciò che comportano, “ridando vita” a chi sembra non averne più resta il miglior digiuno possibile.
Il resto è più o meno un accessorio. […] Continua qui…
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