don Claudio Bolognesi – Commento al Vangelo del 9 Maggio 2021

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Può essere che il vangelo di questa mattina riesca ad affascinarci e a spaventarci contemporaneamente. Affascinarci perché si parla di amore, si parla di gioia. Perché sono parole che parlano al nostro cuore, oltre la nostra capacità di comprensione. È anche vero che alcuni passaggi possono infastidire qualcuno. 
Partiamo di qui. Probabilmente i due, tre passaggi che possono creare problema a una prima lettura sono dove Gesù ci dice che se osserviamo i comandamenti rimaniamo nell’amore. Laddove si dice che il suo comandamento è amare. Andando poco oltre, dove è detto che siamo suoi amici se facciamo ciò che lui ci comanda. Qual è il problema? O quali sono alcuni dei problemi? Il fatto che a noi il termine “comandare” non piace perché non capiamo come si possa amare a partire da un “comandare”. E perché “se osserviamo i comandamenti rimaniamo nell’amore” sembra che assomigli a quello che dicevamo da piccoli: sei mio amico se… Mentre invece vorremmo che l’amore, l’amicizia, tutto questo fossero dati assolutamente disinteressati, sganciati da qualsiasi condizionale. 

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Per poter trovare qualche risposta dobbiamo fare un passo indietro, dare valore ad alcune parole. Ad esempio “comandamento” che torna sia come sostantivo sia come verbo: – se fate ciò che io vi “comando” -. Perché non ha nulla a che fare con i comandamenti come li intendevamo quando da bambini andavamo alla catechesi. I comandamenti non sono delle norme di comportamento di fronte alle quali se non ci adeguiamo dobbiamo confessarci. Se ci va bene. E se ci va male rischiamo di andare all’inferno. “Comandamento” traduce una parola del Primo Testamento che equivale a “parola”. I comandamenti sono le parole di Dio. Sono quelle parole che hanno creato il mondo e hanno creato anche noi. Trovare i comandamenti di Dio significa trovare quelle parole che sono scritte dentro di noi, che fanno parte di noi. Capiamo, ed è molto bello, che queste parole sono più che il nostro libretto delle istruzioni. Sono proprio il nostro DNA spirituale, sono parole di amore. Che non siano semplicemente delle norme lo capiamo bene perché Gesù dice con chiarezza che lui osserva i comandamenti del Padre. Quindi sono il modo con cui Gesù si relazione col Padre. Sono il suo essere Figlio, la sua natura divina di Figlio. Sono una cosa grandissima e meravigliosa.

Se i comandamenti sono la parte costitutiva di noi, ciò che siamo, e questa parte è “amare” si apre il problema di che cosa significhi amare. In italiano abbiamo un verbo unico. Il greco ne conosceva vari. Il verbo utilizzato qui è quello tipico che il Nuovo Testamento sceglie per parlare dell’amore di Dio e dell’amore di Gesù. È quello che Gesù alla fine del vangelo chiederà ripetutamente a Pietro: “mi ami tu più di costoro”? Fino a che dovrà rassegnarsi a mirare un po’ più in basso. Qui però si parla proprio di questo: dell’amore tipico di Dio. Non si dà nessuno tipo di definizione. Si traccia soltanto il limite superiore: non c’è amore più grande di questo – dare la vita per i propri amici.

Chiaramente non è esclusivo. Non dice che tutte le altre forme non siano amore. Però si dice qual è l’amore più grande. Non si dice che sia un amore esclusivo di Gesù. Per cui non si esclude che altri nella storia, fuori anche dalla nostra fede possono avere fatto altrettanto. Si dice semplicemente: questo è l’amore più grande. È un tema su cui potremmo discutere anche tanto. Oggi, scuole di pensiero sono un po’ perplesse perché sembra che dare la vita per gli altri significhi rinunciare alla propria. In realtà l’invito che il vangelo sempre ci fa è di pensare all’amore in forma unitaria. Noi contrapponiamo l’amore verso Dio, l’amore verso gli altri e l’amore verso noi stessi. Nel momento in cui lo contrapponiamo rischiamo di perderci. Quando il Vangelo ci parla di amore ci dice di un amore che è sempre e comunque tutte queste cose assieme. Viverle insieme non è facile, perché noi siamo costitutivamente disgregati. Il nostro cammino di vita se è un cammino di vita bello è proprio il mettere insieme tutti i pezzi. Piano piano diventare “uno” e quindi diventare anche capaci di amare con questo amore. Quale diventa allora il problema? Come facciamo ad essere sicuri di amare Dio e di amare gli altri? Come facciamo a sapere che il nostro amore verso gli altri è un amore che funziona? Che non è un amore di cui siamo convinti noi che invece in realtà nasconde le nostre fragilità ed è un amore disgregato.

Credo che a questo punto la risposta funzioni: se vogliamo essere sicuri di amare Dio, se vogliamo essere sicuri che il nostro amore gli uni per gli altri sia effettivo, abbiamo bisogno di confrontarci col comandamento. Con quello che Gesù ci dice. Sarebbe ancora più esatto dire: con la sua parola. Quella parola che abbiamo visto nel vangelo di domenica scorsa, che è chiarissima. Ma questa è la seconda parte di quel brano del Vangelo, andrebbero probabilmente letti e commentati assieme. Il problema è che rischia di diventare troppo complesso. Però la prospettiva è quella. La vite di cui noi siamo i tralci, di cui dobbiamo portare frutto, come facciamo a essere sicuri di esserci uniti? Il vangelo ci risponde: accogliamo quella parola che ha purificato il tralcio affinché porti frutto. È la stessa parola che ci dà i parametri e ci rende sicuro il cammino. Ci fa dire: sì, siamo in quell’amore.

La grande fatica di questo vangelo sembra essere soprattutto il convincerci di una dinamica di fondo. Nel brano di domenica scorsa c’è l’opera del Padre, il vignaiolo. C’è l’opera del Figlio. Ci sono una serie di azioni che il Figlio compie. Lui che è la vita e dona la parola. Ama, osserva i comandamenti del Padre, dà a sua volta il suo comandamento. Ci chiama amici. Ci ha scelto lui. Il Vangelo sembra volerci dire: attenzione! Esci, uscite da una logica egoistica. Da una logica egocentrica. Dove siamo noi che diamo significato alle parole. Che decidiamo cos’è “comandamento” cos’è “amore”. Che andiamo a cercare lui. Che dobbiamo obbedire e non ne siamo capaci. Allora siamo infastiditi. Di fronte a tutto questo dobbiamo fare un passo indietro. Dobbiamo metterci di fronte a quello che Gesù ha fatto. E ripeto: non esclude quello che hanno fatto gli altri. Ma quello che ha fatto Gesù ha un valore diverso. Perché Gesù è colui che è in comunione col Padre.

Tutte queste cose che Gesù fa in questo vangelo hanno come destinatario noi. Per cui c’è una logica trinitaria che è il rapporto tra il Padre il Figlio. C’è una attenzione che Gesù sia al centro di ogni nostra attenzione. Ma è vero che colui che è al centro della nostra attenzione ha come centro noi, ha come destinatario di ogni cosa noi. Per cui si parla di amicizia. È per questo che qualche domenica fa dicevo che dobbiamo essere un po’ perplessi quando il Vangelo ci dice che siamo servi. Perché in questo vangelo Gesù chiaramente dice: noi siamo amici. Si parla di un frutto che deve essere dato e deve essere un frutto abbondante. Nel finale di questo brano si aggiunge: deve essere un frutto che rimane. Dicevamo domenica scorsa che questo frutto è il diventare discepoli. È osservare la parola, il comandamento. È vivere nell’amore. Al termine di tutto c’è la promessa della gioia. Perché è quello che Gesù ci dice con tanta chiarezza: vi ho detto queste cose perché la mia gioia sia in voi e la vostra gioia sia piena.

Noi accogliamo questa gioia. Siamo contenti di essere tralcio che dà frutto e vogliamo imparare a dare frutto abbondante. Vogliamo accogliere quella parola di Gesù che ci rende sicuri di vivere nel suo amore. Essere capaci di fare quello che lui ha fatto forse è dire tanto, perché come lui ha amato noi chiaramente non riusciremo mai ad amare. Ma vivere in quell’amore lì. Provare a vivere di quell’amore. Ispirati, non capaci ma desiderosi di vivere così. 
Ecco questo possiamo farlo.

Buona domenica.