Una curiosa immagine quella che riportiamo all’inizio del video. Può piacere o no. A noi francamente lascia perplessi. La raffigurazione che pure abbiamo scelto è una tra le tante che si possono trovare in rete facendo una ricerca approfondita sulla Trinità.
Il volto rappresenta insieme Padre, Figlio e Spirito ed è inquietante. Sembra che ci si stia sdoppiando la vista, come durante un mal di testa particolarmente forte. Non è una rappresentazione teologicamente accettata perché secondo alcuni si presta ad un’eccessiva umanizzazione del Padre e dello Spirito e confonde le Persone.
Il simbolo sottostante, lo “scudo della fede”, o della Trinità, sintetizza invece in modo ineccepibile la relativa teologia. Lo fa in modo chiaro e quindi non appassiona nessuno. Ogni rappresentazione della Trinità ha pregi – spesso pochi – e difetti – di frequente tanti -. Bisogna proprio che ci limitiamo all’ascolto del Vangelo. Siamo alla fine del racconto di Matteo, Gesù sei risorto e hai incaricato le donne di dire ai discepoli – ai “fratelli” – che Ti vedranno in Galilea.
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Poi c’è il racconto di come è nata la voce che non sei veramente resuscitato: sono stati discepoli a trafugare il corpo. A questo punto si racconta degli “undici”, quindi di una comunità ferita, segnata costitutivamente dal tradimento che, pure, è capace di obbedirTi e fa quello che le hai ordinato. Vanno in Galilea, tornano alle radici della loro vocazione, rileggono il Vangelo dalla prima pagina.
Lì Ti “vedono” – il termine utilizzato ha a che fare con la mente, non solo con l’occhio – e Ti adorano. Il Vangelo ci tiene a dire subito che questo va di pari passo con il dubbio. Il verbo che esprime il dubitare è stupendo: racconta di chi, stando in piedi, si trova a bilanciarsi sulle due gambe. Finisce con lo stare un po’ sull’una e un po’ sull’altra, quasi dondolando.
Il credente, noi, siamo ancora oggi lì, con il peso contemporaneamente sulla gamba della fede e poi su quella del – no, non è possibile – o anche solo del – non ne vale la pena, ho altro a cui pensare -. Poi non si dice che “appari” ma che ti “avvicini” ed è un gran bel verbo. E che “parli”. Questo lo sappiamo, abbiamo ripetuto più volte che le Tue più che “apparizioni” sono “audizioni”.
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L’orecchio ha con la mente un rapporto privilegiato rispetto all’occhio, che è molto più prepotente. Parli e per prima cosa dici di Te. Non può essere diversamente. Qualsiasi discorso che tratti di fede e non inizi parlando di Te, è un discorso inutile.
Ti è stato dato ogni potere = siamo in buone mani, non ci siamo sbagliati. A questo punto si parla di noi: essendo andati – non è un imperativo è un participio passivo – quindi l’andare fa parte della vita, è ciò in cui ritroviamo – fate discepole tutte le genti – qui sì che c’è il comando -. Come? Battezzando – quindi immergendo – nel “Nome”, cioè nella forza del Padre, del Figlio e dello Spirito Santo. Insieme “insegnando” perché osservino tutto ciò che hai comandato.
Cosa hai comandato? Tecnicamente nel Vangelo di Matteo hai comandato solo di non parlare della Trasfigurazione prima che Tu fossi risorto. È pur vero che sul monte hai “insegnato” dalle beatitudini alla casa sulla roccia. Poi hai insegnato la missione. E infine, dopo altri insegnamenti, hai mostrato il volto del Padre nelle parabole.
Ci tocca quindi di tornare in Galilea e rileggere il Vangelo dall’inizio. L’ultima frase di nuovo è splendida, è un abbraccio, un conforto: – sono con voi sempre…-. Ma non “sempre” così, vagamente, come una cambiale in bianco.
“Ogni santo giorno che ci doni” ci dai la possibilità di incontrarti, di sperimentare la Tua presenza. Alla fine l’immagine della Trinità è questa: non solo la forza di Dio in cui vuoi che ogni popolo sia immerso. Anche la presenza di una comunità ferita, che fatica a credere ma cerca di farlo, che ubbidisce. Che è impegnata a trascinare nell’incontro con la vita nuova del vangelo ogni persona sulla terra.
Una comunità capace di lasciarsi consolare e di consolare dalla certezza della Tua presenza, del Tuo amore.
don Claudio Bolognesi