Come spesso capita, sono varie le sottolineature che possiamo fare accogliendo l’immagine che Gesù nel Vangelo di questa mattina ci dona. Lui come vite, il Padre come l’agricoltore – in questo caso il vignaiolo – e noi come i tralci. È un’immagine doc del vangelo di Giovanni. Non la troviamo nel Nuovo Testamento in questi termini. La vite è un’immagine che ritorna comunemente in tutta la Parola di Dio, però applicata a Gesù la troviamo soltanto qui.
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C’è solo un precedente nel Primo Testamento nel libro del Siracide in cui la Sapienza (la Sapienza di Dio colei attraverso cui è stato creato l’universo) si presenta dicendo che ha posto la sua tenda in mezzo agli uomini e come la vite ha steso le sue radici e i suoi tralci. È un riferimento importante perché nel prologo di Giovanni il vangelo ci dice che il Verbo si è fatto carne e ha posto la sua dimora in mezzo a noi. In realtà le parole sono: ha messo la sua tenda tra di noi. Quindi possiamo supporre che anche l’immagine della vite venga dall’ascolto, dell’accoglienza di questo brano del Siracide. È comunque un immagine sorprendente perché è di una quotidianità disarmante. Noi purtroppo forse abbiamo perso la familiarità con queste cose. Così come quella del pastore di domenica scorsa.
Però per ogni bravo ebreo nella sua casetta aveva la vite fuori casa sotto cui sedersi all’ombra dopo una giornata di lavoro. Era un riferimento di tranquillità e di pace. Una pace che spesso nel Primo Testamento viene descritta così anche perché godere i frutti della vite e del fico (gli alberi appunto piantati attorno a casa) significava essere in pace, non in guerra. Significava non essere lontano da casa per combattere e non avere un nemico alla porta che avrebbe mangiato lui i frutti del tuo lavoro. Quindi è un riferimento molto, molto dolce, molto quotidiano. Pian piano nel Primo Testamento diventa immagine anche del popolo, alla pari di tante altre. Non è la più sviluppata, però esiste. La vite è come il popolo che dovrebbe estendere i suoi tralci verso Dio. Invece a volte li ha stesi, li stende verso altri.
L’identificazione invece, come dicevamo prima, della vite con Dio, con Gesù in questo caso è un’identificazione molto forte. Perché parte da un – io sono – che è un riferimento al nome di Dio. È un appropriazione forte, un’affermazione cristologica centrale. È una metafora, ma anche molto di più di una metafora: io sono la vite. Nella solennità dell’affermazione la prima cosa che ci viene donata comunque è l’immagine della quotidianità, della normalità della vita.
Di fronte a Gesù-vite ci sono i tralci collegati a lui. In realtà sono collegati fino a un certo punto perché ci viene subito detto che ci possono essere tralci che non danno frutto. Vengono presentati prima questi. Quelli che non danno frutto e quindi verranno tagliati e che verranno bruciati. Si dice che i tralci che non danno frutto sono coloro che hanno scelto di essere autosufficienti. Hanno scelto di non avvalersi del dono di vita che viene dalla vite. Quindi il fatto dell’essere tagliati e poi gettati via e bruciati – che è comunque un’immagine violenta che può anche non piacere – è successiva. In realtà il problema è che il tralcio ha rinunciato a lasciarsi nutrire dalla vite. È diventato inutile, non porta più frutto. L’agricoltore lo taglia.
Dall’altra parte invece abbiamo i tralci che portano frutto. Ecco di fronte a questi abbiamo una sorpresa e la sorpresa è che non si dice: – facciamo festa. Si dice: – sono da potare. Sarebbe forse più esatto dire “da ridurre”, da diradare. Questa è una cosa che fa vedere come la cultura del tempo e anche Gesù se ne intendesse. Perché la vite lasciata libera di produrre, non ridotta, esagera. Produce troppi grappoli e spesso non riesce a portarli a maturazione. Se li porta maturazione è comunque uva di scarsa qualità.
Il vangelo ci dice che l’entusiasmo del discepolo che si lascia nutrire da Gesù-vite a volte deve essere ridotto. Deve essere realisticamente messo in condizione di poter terminare quella che è la sua opera. Questo può essere qualcosa di doloroso. Viene tradotto attualmente col verbo “potare” ma in realtà quello che viene utilizzato è “purificare”. Che è importante perché torna subito dopo, nel momento in cui Gesù dice: – voi siete già puri, siete già purificati -. Cos’è che vi ha purificato? Vi ha purificato il Verbo, la Parola. Non gli insegnamenti – attenzione! – non le cose che vi dico, gli altolà che pongo sul vostro cammino. Ma è il Verbo, quindi la presenza di Gesù, quello che purifica. Lo stare con lui, prima che le cose che dice.
A questo punto tutto viene letto all’interno di un verbo che è centrale nel vangelo di Giovanni: il verbo “rimanere”. Possiamo forse pensarlo come lo stare in piedi successivo alla resurrezione. Lo stare in piedi di Gesù dopo la sua resurrezione. Lo stare in piedi nostro di fronte alla sua resurrezione. È un verbo che ci accompagna dall’incontro con i discepoli nel primo capitolo e che è presente in tutto il vangelo. Quello che Gesù chiede è di stare con lui. Rimanere con lui precede e genera l’ascoltare. Supera infinitamente il realizzare. Cioè c’è una comunione che è più importante di tutto il resto. Questo lo capiamo bene perché stare con le persone, decidere di essere parte della loro vita e fare sì che loro lo siano della nostra è il presupposto per tutto il resto. Altrimenti essere cristiani sarebbe semplicemente un’ideologia. Invece è un discepolato, è stare col maestro.
Negli ultimi 2 versetti ci viene detto che se noi rimaniamo in Gesù e le sue parole rimangono in noi, chiediamo quello che vogliamo e ci sarà fatto. A questo punto non si usa più Verbum, Logos, si dice “parole”. Sono le parole concrete. A volte questo termine viene tradotto anche con “cose”. Sono parole-pietre, che rimangono. “Chiedete quello che volete e vi sarà fatto”, questa è una parola che ci manda quotidianamente in crisi. Perché da un certo punto di vista vorremmo che fosse così. Dall’altra ci rendiamo conto che abbiamo chiesto tante volte e così non è stato. Allora ci viene il dubbio – beh forse non è così perché non sono stato abbastanza con Cristo -. O forse ci viene il dubbio – ma allora con Gesù lasciamo stare – la fede fa promesse irrealizzabili… Sono tanti i possibili percorsi che vengono di fronte a questa promessa di Gesù.
Il versetto finale ci parla della glorificazione. Abbiamo già detto altre volte che la gloria è ciò che il suo entrare solenne con tutto se stesso della nostra vita provoca in noi. Quindi ciò che viene trasformato in noi dalla contemplazione. È il Padre che viene glorificato dal fatto che portiamo frutto e diventiamo discepoli di Gesù.
Ci dovremmo ancora chiedere che cosa vuol dire portare frutto. Una risposta segnalata da tanti commentatori è la gioia. Perché il frutto della vite viene associato a questo. C’è però anche dell’ambiguità perché il frutto della vite provoca anche a un ebbrezza che a volte porta lontano dalla giustizia e dalla via di Dio. Questo in tutta la letteratura. Viene dell’esperienza quotidiana – se ti ubriachi chiaramente non solo diventi un cattivo cristiano. Se ti ubriachi sei una persona che non è più responsabile delle sue azioni.
Nell’immagine del frutto da portare c’è certamente un riferimento a quello che dicevamo all’inizio, alla pace. L’opera di Dio che fruttifica in noi dà frutti di pace. Nel vangelo poi l’opera prima di Dio è che abbiamo fede e probabilmente anche questo è il frutto. Alla fine quindi il riferimento più grosso in questo brano sta proprio in quel “diventiate miei discepoli”. Il verbo che si riferisce alla realizzazione della nostra preghiera è lo stesso verbo che si riferisce al diventare discepoli. Ad essere discepoli. Ad essere costituiti, a rimanere discepoli. Questo capiamo perfettamente che è una preghiera che il Signore ha realizzato in noi e che realizza quotidianamente. Perché chiaramente il desiderio di diventare discepoli è una delle cose più belle della nostra fede. E sapere, credere che il Signore è la vita che ci dà la forza per realizzare soprattutto questo, e attraverso questo poi tutte le altre cose belle, è sicuramente una rivelazione bella e importante.
Per cui ringraziamo il Signore e il vangelo che ci viene donato in questa domenica del tempo di Pasqua.
Buona domenica.