Il brano che abbiamo ascoltato è il brano immediatamente successivo al racconto dell’episodio di Emmaus. I due che hanno incontrato il Risorto sul cammino per Emmaus sono rientrati desiderosi di condividere la loro esperienza. In realtà prima ascolteranno quello che è successo alla comunità: le donne hanno verificato che la tomba è vuota. Hanno incontrato il Risorto. Hanno raccontato il fatto ai discepoli che non hanno creduto loro. Pietro è andato alla tomba, ha verificato il fatto che è vuota. A questo punto si inserisce la narrazione dei due di Emmaus che non è solo una “narrazione”. Dice il vangelo che è un “esegesi” cioè una narrazione attenta al significato interiore di quanto è successo. Di fronte a questa narrazione sembra non esserci una conseguenza. In realtà il vangelo ci dice che dentro questo scambio di esperienze, mentre essi parlano di queste cose, Gesù si fa presente. Si fa presente ma in realtà il verbo della presenza è un verbo non di entrata, non di movimento. È un verbo statico. Il Risorto “è” presente nello scambio delle esperienze di fede dei discepoli. È presente anche nello scambio della difficoltà nel credere. Questa è già una prima indicazione. È molto bella perché ci dice e forse ci informa che potrebbe essere così, e sarebbe così anche per noi oggi se fossimo più bravi. Se dedicassimo più attenzione, più tempo, nel raccontarci vicendevolmente la nostra esperienza dell’incontro con Cristo, l’incontro col Risorto.
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Si apre qui la seconda scena. Ci sono alcune cose caratteristiche comuni agli altri vangeli, cioè il Risorto si presenta rendendo presente il dono della pace e ci sono alcune cose che sono simili ma non proprio identiche. Il fatto che presenta i segni della passione ma mentre in Giovanni sono i segni dei chiodi nelle mani e la ferita del costato qui è la presentazione delle mani e dei piedi. C’è in comune con tutti i vangeli la risposta della comunità che è una risposta di fatto di incredulità o di fatica nel credere. Ma non esiste una professione di fede nel vangelo di Luca. La professione di fede potrà essere solo dopo il dono dello Spirito, quindi fuori dal racconto del vangelo, all’inizio degli Atti degli Apostoli. Possiamo considerarla un’opera unica, ma su questo il discorso sarebbe lungo. Di fatto non lo sono. Sono forse le due parti, i due capitoli di uno stesso grande affresco. È interessante che il dono dello Spirito e l’opera della fede sono all’inizio del secondo libro. Sono un traguardo ma ancor di più un punto di partenza.
Nel vangelo di Luca, in questa parte centrale, nell’apparizione del Risorto, chiarissimamente si avverte una sottolineatura: il Risorto ci tiene ad informare che non è un fantasma. Il termine è “spirito”, è qualche cosa comunque di evanescente. Qualche cosa che ha a che fare col vento. Dietro probabilmente c’è la cultura ellenistica, la filosofia greca classica che pensa che l’uomo sia anima e corpo. E quindi questa sia solo una parte. Gesù vuole dire che non è una parte: è lui. Anzi forse è anche un di più. È tutto quello che hanno conosciuto più quello che a loro è mancato.
La sottolineatura del fatto che Cristo non è un fantasma ha una un riflesso nell’atteggiamento della comunità, del gruppo dei discepoli. Vengono descritti una serie di atteggiamenti che sono soprattutto gli atteggiamenti emotivi. All’inizio sono negativi. Si dice che sono sconvolti, che sono pieni di paura. Poi diventano positivi: sono pieni di gioia e di stupore. Ma la cosa molto interessante e probabilmente una delle delle attenzioni particolari dell’evangelista Luca, della comunità che ci consegna questo vangelo, è che di fronte a questo bailamme emozionale che può essere negativo positivo ci sono comunque due atteggiamenti di fronte cui il Risorto è perplesso. Da una parte il dubbio e dall’altra l’assenza di fede.
Il dubbio in questo caso non è un meccanismo interiore, strumento di conoscenza. Chi mi conosce sa che questa è una riflessione che torna spesso perché mi capita di incontrare persone che mi vengono a dire – il mio peccato è che ho dei dubbi -. Il peccato non è che hanno dei dubbi. Il peccato è che ho dei dubbi gestiti in modo sbagliato. Sono i dubbi utilizzati come strumento, come gioco fra me e me. Che mi paralizzano. Per cui non sono obbligato a fare delle scelte di fede perché comunque ho i miei dubbi e il mio tempo me lo passo a giocare con loro.
Così come la mancanza di fede. Che è ben più di una “mancanza” di fede. Il verbo esprime proprio una un’assenza. Quasi un tentativo di combattere la fede. Ed è interessante il fatto che questo è abbinato anche a un’emozione positiva. Sembra di capire che il Risorto sia perplesso di fronte a una definizione di fede che noi oggi potremmo dire “spiritualista”. Il Risorto è un fantasma – che bello che bello! -. Questo mi fa avere tanta paura, perché è più facile gestire un Dio morto che un Dio vivo, perché un Dio vivo, oddio, ecco, è un problema. Però io posso anche gioire delle mie paure perché comunque sono un emozione. Quindi sono un cibo per tante dinamiche interne. Posso avere emozioni positive – che meraviglia, che bello che bello… -. Però tutto questo se porta a una paralisi all’interno delle dinamiche della vita comunitaria e della vita in generale, non ha niente a che fare con l’esperienza del Risorto.
Di fronte a questo ci sono due gesti che il Risorto compie. Sono il mostrare le mani e i piedi e il secondo è il mangiare il pesce, la porzione di pesce. Non sono nessuno dei due risolutivi. Sono importanti ma non risolutivi. Mostrare le mani e i piedi sono il riferimento al fatto che comunque questo è il Cristo che è stato crocifisso. Sono il riferimento alla passione. Sono chiaramente anche un riferimento all’opera, cioè a ciò che il Cristo compie. E al suo camminare. Che è uno dei dati comuni a tutti i vangeli, soprattutto al vangelo di Marco, ma a tutti i vangeli. È la grande metafora dell’incarnazione. Cristo è venuto, ha posto la sua tenda, ha camminato in mezzo a noi.
Mentre invece il mangiare chiaramente non è legato a una necessità. È legato a una condivisione. È legato a un qualche cosa che fa riferimento alla convivialità. Quello che Cristo ha operato, ciò che le sue mani hanno fatto, la strada che ha compiuto in mezzo a noi, è caratterizzato dalla condivisione. Di cui il pasto è l’occasione. Non solo la metafora ma l’occasione principale.
A questo punto troviamo l’ultima scena. Che è un discorso del Risorto che ha come centro il fatto che egli apre la mente all’intelligenza delle scritture. Che è la grande attenzione di tutti i vangeli che ci parlano dell’incontro con lui. Perché è la strada principale ancora oggi anche per noi. È interessante ciò che viene detto come “intelligenza delle scritture”. Perché mentre prima si parla di un dubbio che è una sorta di di frammentazione della verità in cui è facile perdersi, che produciamo anche noi volentieri per perderci. Qui si parla invece del mettere insieme delle verità. Del mettere insieme dei frammenti di verità che ci vengono dalla realtà, ci vengono dalla Parola di Dio. È nel mettere insieme tutto questo che si fa il passo avanti. È quello che è Risorto chiede alla comunità. La conseguenza di questa intelligenza della scrittura è la testimonianza. La testimonianza deve essere coerente. La testimonianza deve essere un incontro, che però essendo un incontro reale può essere condiviso. I pezzi di questo incontro combaciano.
Allora pur non non rifiutando, pur non demonizzando assolutamente quello che è il bisogno che abbiamo come singoli e come comunità anche di un incontro emotivo gratificante con Cristo, accogliamo quello che il vangelo questa mattina ci dice e ci chiede. La capacità di condividere le esperienze di fede che abbiamo, il costruire occasioni per fare questo. Il tentativo, la ricerca di sfuggire da una spiritualizzazione autocompiaciuta della nostra fede. Ma lasciare che il Risorto ci aiuti a comporre quanto ci è stato promesso, rivelato. Quanto il mondo, le persone ci testimoniano. Quanto la scrittura opera nella nostra vita, per essere capaci di condividere questo nel dono della testimonianza.
Buona domenica.