La teologia non è una scienza astratta adatta solo a seminaristi, preti e suore. E’ un corpo a corpo con Gesù, che apre strade di apprendimento e approfondimento del Vangelo e della fede, parlando alla nostra esistenza di oggi. Presso la Libreria San Paolo di Via della Conciliazione, in Roma, ho dialogato con Armando Matteo, autore di “Evviva la teologia. La scienza divina”.
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INTRODUZIONE
Un libro scritto “per invidia”
È possibile, nel contesto di questa nostra società sempre più secolarizzata, tessere un elogio della teologia? Una lode di quella “scienza divina” che ha per oggetto non questo o quell’aspetto del reale, ma il mistero primo e ultimo di tutto ciò che esiste, che è esistito e che esisterà e che la lingua umana da sempre nomina “Dio”? Non è ormai il nostro, almeno alle sue latitudini occidentali, un mondo senza Dio? E non è, appunto, in una tale cultura, ogni Dio definitivamente morto e sepolto, come più o meno centocinquant’anni fa proclamò Nietzsche?
Certo, è ancora ammesso, e non senza un ampio consenso, un qualche discorso che prenda a tema questioni come l’anima, Dio, Gesù e persino la Vergine Maria (come accade in molti testi di Vito Mancuso, Massimo Cacciari, Corrado Augias, Massimo Recalcati), purché però tali argomenti vengano affrontati sulla scorta di parametri totalmente razionali, storici, simbolici e psicoanalitici. Come a dire che l’unico mistero ancora possibile da indagare, dopo la morte di Dio, è che, in verità, non c’è appunto alcun mistero.
Sotto queste condizioni, dunque, che cosa potrebbe essere sopravvissuto, nella coscienza diffusa, di quell’esercizio dell’intelligenza umana che corrisponde al nome di teologia?
In verità, non ne è rimasto molto. Per la maggior parte delle persone, se ha ancora un senso e ancora serve a qualcosa, la teologia ha un unico scopo: la formazione della classe dirigente della Chiesa. Insomma, per gli uomini e le donne di oggi, e indipendentemente dalla loro formazione culturale, la teologia è quella cosa che “si fa” – si insegna – in quei luoghi chiamati “seminari”, nei quali un sempre più piccolo gruppo di giovani maschi si ritrova per diventare responsabili di una delle numerosissime parrocchie presenti sul territorio. In quei luoghi, insomma, dove ci si fa prete!
Forse qualcuno potrà ancora ricordare che anche coloro che insegnano religione nelle scuole hanno l’obbligo di un percorso di studi afferente al sapere teologico; ed infine solo pochissimi saranno a conoscenza del fatto che pure per la preparazione di coloro che si avviano ad una vita religiosa – suore, frati, monaci e monache – è prevista una qualche istruzione di tipo teologico. In ogni caso, l’idea diffusa circa la teologia è quella di una forma di sapere strumentale: serve a coloro che, a diverso titolo, si mettono al servizio di una vocazione religiosa. La teologia è insomma una cosa per preti, suore e insegnanti di religione. Di conseguenza, di un suo elogio pubblico e principalmente destinato a coloro che non sono né intendono diventare preti, suore o insegnanti di religione, nessuno pare proprio al momento avvertirne la ragione e, ancora di meno, il bisogno.
Non ci resta, allora, che prendere atto del tremendo destino che al presente sperimenta la scienza divina della teologia? E cioè della totale scomparsa dal sentire comune del suo pur semplice significato etimologico? Del suo essere, in verità, discorso (logos) su Dio (theos), discorso cioè sul mistero più grande di ogni mistero, e dunque discorso sulla possibilità (e a partire dalla possibilità) che Dio abbia qualcosa da “dire” a proposito del proprio mistero, che è il mistero più grande di ogni mistero?
Non ci resta, allora, che prendere atto del totale oblio delle nobili definizioni classiche di un tale esercizio dell’umana intelligenza, disseminate lungo la bimillenaria tradizione cristiana? Penso qui a ciò che ne diceva Agostino di Ippona: teologia come discorso sulla divinità, che tiene circolarmente insieme la fede e la ragione; a quel che ne diceva Anselmo di Canterbury: teologia come esercizio dell’intelligenza che il credente compie per darsi e dare ragione di ciò cui assegna la sua fiducia; o infine a quel che ne diceva Tommaso d’Aquino: teologia come scienza che partecipa del sapere stesso che Dio medesimo possiede.
Non ci resta, dunque, che registrare quanto, dall’altezza di queste incisive sue descrizioni, sia stato disastroso il capitombolo del sapere teologico ridottosi ormai all’idea di essere solo una “cosa” da preti e di chi decide di farsi prete?
Se non ci resta che questo, altro, allora, che “Evviva la teologia”! Altro, allora, che “La scienza divina”![…]
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