Storia di un amore non corrisposto e di attese frustrate. Potrebbe essere letta da questo versante la storia tra Dio e l’umanità come la storia tra Dio e me. Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna, che io non abbia fatto?
Quante attenzioni per quella vigna vangata, sgombrata dai sassi, piantata di viti scelte… Servi inviati, e poi altri ancora e poi, da ultimo, il figlio.
Che cosa dovevo fare ancora alla mia vigna che io non abbia fatto?
Storia di un amore non corrisposto, appunto. E tuttavia, nelle parole di Gesù come in quelle di Isaia, avvertiamo ad un tratto una durezza insolita, tutta da decifrare.
Sarà loro tolta la vigna… sarà loro tolto il regno di Dio… E Isaia annota: Ora voglio farvi conoscere ciò che sto per fare alla mia vigna: taglierò la sua siepe e si trasformerà in pascolo; demolirò il suo muro di cinta e verrà calpestata. La renderò un deserto…
La passione fa alzare la voce, proprio come accade talvolta a noi. Il rimprovero è in vista della possibilità di ristabilire il legame: riconoscere la propria colpa è ciò che può far vivere un rapporto secondo verità. Stupirci di questa passione più che sostare sulle minacce. Proviamo a rileggere così la nostra storia personale.
Quante volte Dio l’ha vangata questa mia esistenza, dissodandola per non lasciarla incolta, quante occasioni offerte. Quante volte l’ha concimata con il dono della sua parola, con un perdono di nuovo concesso, con l’Eucaristia che ha ridato speranza al nostro andare.
Quante volte l’ha sgombrata dai sassi, cioè tutte quelle realtà che appesantiscono, ostacolano, fanno inciampare; quante volte l’ha sgomberata da visioni anguste e da realtà asfittiche.
Quante volte vi ha piantato viti scelte: quante presenze hanno illuminato la mia vita, quanti incontri sono stati per me un dono, quanti fratelli mi hanno fatto intravedere un diverso modo di guardare le cose. Eppure, non poche volte il Signore Gesù non trova più spazio in noi tanto da essere nuovamente “condotto fuori dalla vigna”.
Proprio come accade nelle nostre relazioni, diamo per scontato tutto, dalla vita (quando siamo capaci di apprezzarla se non quando la vediamo minacciata?) alla possibilità di goderne appieno, dal dono di alcune presenze (quando ne riconosciamo la valenza se non quando non ci sono più?) alle occasioni offerte attraverso di esse. E così finiamo per ritenerci padroni di ogni cosa, destinatari meritevoli della sollecitudine dell’altro, fruitori unici di quello che ci è stato affidato.
Come non recuperare il senso della gratitudine, per i fratelli e le sorelle, gli amici posti sul nostro cammino, per la fede che muove i miei passi e per i pensieri che fanno vibrare il mio cuore? È quella che potremmo definire come la memoria del dono: non smettere di interrogare la propria storia.
Questa gratitudine e questa memoria vanno cantate. Quando ciò non accade più, i nostri occhi sono incapaci di vedere e di riconoscere. Camminiamo con gli occhi bassi e finiamo per calpestare i fragili germogli che pure continuamente cercano di spuntare nel mio terreno.
Non basta vantare una storia veneranda di tradizioni: è dietro l’angolo il rischio di perdere tutto. Sarebbe come convincersi di vivere una relazione solo perché continuiamo a sfogliare l’album fotografico di quando ci siamo conosciuti, senza accorgerci che l’altro è già andato via da un pezzo.
In guardia, perciò, dall’indifferenza, dalla superficialità, dalla distrazione e da una rassegnata mediocrità.
Il Cantico dei Cantici, storia di amore tra Dio e il suo popolo, si apre con una amara constatazione dell’Amata: la mia vigna, la mia non l’ho custodita. Imparare a prenderci cura di noi stessi e di ciò che a noi il Signore ha affidato.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM