‘Io sono la vera vite’: è questa la lieta notizia per il nostro cammino dietro il Risorto.
Più volte e in diversi modi Dio aveva piantato e curato un’altra vigna, il suo popolo Israele perché fosse nel mondo il segno di una umanità capace di giustizia. E tutte le volte Dio aveva incontrato non poche resistenze e numerosi fallimenti. Ma la delusione per la mancata produzione di frutti di giustizia non ha mai spento la sua speranza.
Dio ci riprova: il suo progetto di un’umanità nuova riparte e riparte con la vera vite, Gesù di Nazaret. C’è un uomo finalmente che può dire: “Sono io la vera vite”, quella capace di non deludere le attese del Padre che è il vignaiolo. Nella misura in cui si rimane uniti a questa vera vite è dato anche a noi di conoscere un’esperienza di pienezza e di fecondità. È lui la vera vite, cioè l’unica possibilità attraverso la quale è dato di corrispondere al progetto di Dio sull’umanità. La condizione perché questo avvenga è il rimanere uniti a lui. È la condizione, non la garanzia automatica, dal momento che è anche possibile rimanere in Gesù e non portare frutto.
‘Rimanete in me e io in voi…’
Non poche volte questa parola di Gesù ha finito per favorire una spiritualità dell’intimità con lui della serie “io e lui e nessun altro”. Ci affascina il desiderio di una intimità da focolare. Ci affascina una spiritualità che favorisca una sorta di individualismo religioso, tanto gratificante ma altrettanto infecondo. Eppure niente di tutto questo nel brano evangelico: il rimanere in lui non è un rinchiudersi nell’intimità del nostro cuore per godere di un rapporto privato ed esclusivo con Dio. Non dimentichiamo che il rapporto con il Signore se da una parte è un fatto personale, non è mai, però, un fatto privato. Gesù è vera vite non perché vive compiaciuto della sua relazione con il Padre ma perché continuamente attraversato dal desiderio di comunicare vita all’esterno di sé.
L’immagine della vite e dei tralci è al di là di ogni individualismo per riscoprire, invece, il valore della comunione. La vita di Cristo che per il battesimo scorre nelle nostre vene dilata continuamente le nostre possibilità di amare.
Perché tanta insistenza sulla necessità di rimanere? Perché non è l’unica opzione possibile. Si insiste sul rimanere là dove si coglie anche la possibilità di andar via. Rimanere o andarsene? E questo nei vari ambiti della nostra storia. Nella fede, ad esempio: rimanere o andarsene? nella Chiesa: rimanere o andarsene? e, ancor prima, nella vita: rimanere o andarsene? Che cosa, semmai, può diventare per noi motivo di rimanere? Il fatto che il primo a non andarsene è Dio stesso.
In guardia, però, da ogni atteggiamento di presunzione: criterio permanente di verifica del rimanere nel Signore è l’agire come lui.
Ecco la necessità per ciascuno di noi di mettere radici: rimanete in me. Il desiderio del Padre, infatti, è uno solo: “in questo è glorificato il Padre: che portiate frutto”. Dio è glorificato se io porto frutto. Dio è glorificato se la mia vita non porta il contrassegno della sterilità ma della fecondità.
Non basta vivere una vita cristiana nell’ordine di una santità fatta di integrità, una santità del preservarsi, del tutelarsi: il frutto che Dio si attende è che i discepoli abbiano le mani immerse nella vicenda della storia.
La qualità della nostra esistenza sarà giudicata dalla nostra capacità di esserci giocati nella nostra storia. Il giudizio di Dio, infatti, non guarderà certo le nostre fragilità che pure sono costitutive di noi. Riguarderà piuttosto il nostro grado di fecondità. Perché il rischio per ciascuno di noi, il peccato vero e proprio è quello di aver vissuto una vita inutile, una vita recisa da quel flusso vitale che Dio continuamente ha provato a far scorrere dentro di noi: senza di me non potete far nulla.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM