Quante volte al giorno mangiamo? Lo facciamo spesso, il più delle volte quasi per un automatismo. Talvolta, forse, non ne abbiamo neppure bisogno, eppure… Fatichiamo a stare a contatto con la percezione di un buco allo stomaco.
Ma perché privarsi di qualcosa? Che senso ha? Ci può essere il rischio – e la Parola di Dio lo evidenzia con forza – di fermarsi ad una pratica esteriore smarrendo il senso profondo di quell’esercizio che noi conosciamo come astinenza. In questo modo sarebbe una forma ulteriore per nutrire il nostro orgoglio.
Come il nutrimento, per l’uomo, è molto di più che un ingurgitare alimenti, così il privarsi di cibo è molto di più del semplice astenersi: il creare un vuoto, infatti, è preludio a una maggiore capacità di ospitare qualcosa di più vero e di più grande. Il privarci del cibo è qualcosa che frustra il nostro bisogno di portare qualcosa alla bocca. C’è qualcosa, però, di più frustrante ed è il privarci di Dio a motivo di tante nostre autosufficienze che non ci permettono di riconoscere l’invito a nozze a noi partecipato. Siamo talmente abbuffati di cose che non riusciamo più a sentire il morso del bisogno di Dio. Se davvero avvertissimo forte tale bisogno di Dio tanto da patire la sua assenza, saremmo disposti a ben più generose rinunce pur di non perdere una simile opportunità.
Sappiamo per esperienza dell’importanza del digiuno quando dobbiamo subire un intervento o sottoporci ad analisi cliniche. Perché mai questa presa di distanza dal cibo se non per permettere al corpo di evidenziare con maggiore obiettività ciò da cui siamo, eventualmente, affetti? Tanto è vero, che qualora dovesse presentarsi qualche patologia, la prima cura è quella di sottoporsi ad una diversa alimentazione se non, addirittura, eliminare certi alimenti.
Nella vita spirituale accade lo stesso: per prendere coscienza di ciò che appesantisce il cuore e rallenta il passo, è necessario crearne le condizioni attraverso una adeguata presa di distanza da ciò che, se immediatamente appaga, sulla lunghezza rischia di diventare nocivo. Per questo il digiuno cristiano non è mai solo qualcosa di rituale fine a se stesso: esso si esprime sempre come capacità di condividere ciò di cui io mi privo. La possibilità per me di vedere rimarginate le mie ferite passa sempre attraverso la cura di quelle altrui.
C’è un lutto da elaborare e questo passa attraverso il vuoto che lo stomaco avverte quando colui per cui siamo fatti – lo Sposo – è lontano da noi. Vengono per tutti i giorni in cui lo Sposo viene a noi sottratto, proprio perché possiamo prendere coscienza che senza di lui siamo esposti ad una situazione di vulnerabilità che nulla può riempire.
Proprio la presa di distanza dall’ingordigia è ciò che permette a noi di essere uomini e donne capaci di relazioni libere che non continuano ad affaticare chi è già oppresso di suo.
È ovvio, a questo punto, che serve a ben poco digiunare dal cibo se non abbiamo imparato a digiunare da noi stessi.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM