“Dobbiamo entrare nel regno di Dio attraverso molte tribolazioni”.
“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”.
Sono le parole che fanno da inclusione alla ricchezza della Parola di Dio dispensata per noi in questa Divina Liturgia: tribolazione e pace.
L’adesione al Vangelo e alla persona di Cristo non è mai indolore. L’appartenenza a lui è sempre confrontata con situazioni che la minano alla base. Per questo l’essere credente non è uno status che si conserva a prescindere: esso è sempre di nuovo da decidere anche a prezzo della propria esistenza come può testimoniare lo stesso Paolo che proprio poco prima aveva conosciuto persino la lapidazione.
La tribolazione è anzitutto qualcosa che ha a che fare con il nostro cuore: la nascita dell’uomo nuovo pensato secondo Dio – mai avvenuta una volta per tutte – passa sempre attraverso la morte di tanti aspetti che, se lasciati a se stessi, rischiano di soffocare sul nascere la vita nuova. Dentro di noi, anzitutto, c’è qualcosa che mette a dura prova la saldezza della fede. Si tratta di qualcosa che attinge a tutto il mondo delle nostre passioni e dei nostri stati d’animo, fatto di risentimento, rancore, inimicizia, pigrizia.
E, tuttavia, così come è accaduto al Signore e a tutti coloro che lo hanno seguito fino in fondo, c’è anche una opposizione esteriore. Lo aveva detto anche Gesù proprio alla vigilia della sua passione: “voi avrete tribolazione nel mondo”. Scegliere lo stile di vita del Signore Gesù espone sempre al confronto. Gesù identifica questo confronto già in quelli di casa propria. Per questo è necessario esserne consapevoli. A chi intendesse il cristianesimo come un itinerario verso magnifiche sorti e progressive, Gesù ripete che ha imboccato una strada sbagliata.
Che cos’è la tribolazione? È una vera e propria spina dolorosa materiale o metaforica. La spina più grande, ossia la costante tentazione della fede è il divinizzare ciò che non è Dio.
La fede non è mai un dato ovvio: perseverare in una vita conforme al vangelo non è mai à la page. Le sofferenze non riguardano soltanto le persecuzioni evidenti; esse hanno a che fare con tutte le inevitabili prove della vita quotidiana. Ci sono momenti in cui le difficoltà della vita, di salute, le incomprensioni familiari, la consapevolezza del proprio limite, sembrano toglierci il respiro, ci scoraggiano fino a farci credere impossibile un reale cammino di fede.
Così doveva essere il clima quella sera nel cenacolo allorquando i discepoli intuirono che il cammino del Maestro si avviava verso un tragico fallimento. Proprio in un contesto di angoscia Gesù consegna delle parole tanto meravigliose quanto difficili da comprendere: “Vi lascio la pace, vi do la mia pace”. Di quale pace si tratta? Non di quella cui siamo soliti pensare. Non si tratta, infatti, di una pace che si identifica con la serenità di una vita senza problemi. Non è la pace come assenza di conflitti o di problemi. Non coincide con la calma o la quiete delle circostanze, ma con la consapevolezza che la mia vita sta a cuore a Dio più di quanto non lo stia a me. È la pace che non risparmia le tenebre del venerdì santo ma le attraversa nella certezza che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore di Dio in Cristo Gesù.
Lo sappiamo per esperienza personale: ci sentiamo in pace e siamo sereni allorquando sappiamo di essere legati a qualcuno agli occhi del quale valiamo almeno quanto la sua stessa vita. Questo ci rende capaci di affrontare ogni cosa.
Paradossalmente, proprio la tribolazione diventa la porta della pace perché purifica le nostre attese. Le tribolazioni si attraversano tenendo fisso lo sguardo su Gesù, autore e perfezionatore della nostra fede.
La pace che il Signore ci dona ha niente a che vedere con il compromesso o con i nostri trattati. Essa è sempre una pace pasquale, nasce cioè dalla croce, accetta di attraversare le tribolazioni spingendo ogni cosa oltre. Forse, quando ristagniamo nei nostri porti, è perché la nostra fede non si è ancora misurata con il momento della prova che è sempre un momento di verità per saggiare ciò che davvero portiamo nel cuore.
“Il Padre è più grande di me”: trovo un grande respiro in queste parole. Se Gesù è stato grande per quello che ha compiuto e per gli insegnamenti che ci ha trasmesso, quanto più il Padre! E i discepoli di Gesù con che cosa si misurano? È ben diversa la piccineria dalla piccolezza evangelica. È ben diversa la larghezza di Dio rispetto alle nostre forme di ripiegamento e di chiusura.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM