don Antonio Savone – Commento al Vangelo del 28 Luglio 2023

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Vorrei tanto ritrovarmi nel gruppo dei discepoli che osano avvicinarsi a Gesù per essere messi a parte di uno sguardo nuovo sulla realtà e riuscire a vedere quello che ad occhio nudo non si riesce a cogliere.

In un tempo in cui il disincanto sembra essere la categoria che più rilegge il nostro vivere, siamo invitati ad apprendere l’arte di stupirci. Di cosa? Di un Dio che instancabilmente si rivolge all’uomo perché venga rigenerato mediante il dono della sua Parola, proprio come l’acqua rigenera un suolo riarso. Dio ci parla continuamente.

E lo fa nei modi più diversi. Senz’altro attraverso il dono della sua Parola proclamata nella liturgia o ascoltata nel chiuso della nostra camera; attraverso il dono dell’esistenza o la grazia di un’amicizia, mediante un evento di luce come per mezzo di un momento di fatica. Sempre Dio parla al nostro cuore. Sappiamo tutti la risonanza positiva che esercita su di noi il fatto che qualcuno ci parli, che non ci consegni mutismo, come conosciamo altresì l’angoscia patita quando qualcuno distoglie da noi il suo sguardo e ci toglie la parola. No: Dio non si ritrae mai in un atteggiamento risentito. È un infaticabile tessitore di dialogo. Per lui non esiste un tempo in cui egli non getti il seme della sua Parola. Ci parla persino nella morte e attraverso il silenzio a tutta prima infecondo di un sabato santo.

Non esistono condizioni previe perché questo accada: egli, infatti, non ha preferenze di luoghi o di persone. Se nell’agricoltura perché il sema porti frutto è necessario preparare il terreno, non così per Dio: ogni terreno è adatto alla possibilità che il seme attecchisca e germogli. 

“Il sasso può diventare una terra fertile, la strada non essere più calpestata dai passanti e diventare un campo fecondo, le spine essere sradicate e permettere al seme di dare frutto liberamente” (S. Giovanni Crisostomo).

Quando ciò non accade non è perché io non sia stato raggiunto dalla sua Parola ma perché, verosimilmente, o non l’ho riconosciuta o, se l’ho riconosciuta, non l’ho accolta con docibilità, che è la capacità propria di chi si lascia plasmare continuamente dalla parola che ascolta. La fecondità del seme, infatti, non è legata alla misura del frutto ma alla qualità dell’accoglienza.

Il solo fatto che il Signore scelga di cadere nel solco della nostra vita (sia esso fatto di spine o di pietre o dell’aridità della strada) è già motivo per sperare contro ogni speranza.

È vero: l’intelligenza si apre quando l’uomo è in grado di tornare alla meraviglia, allo stupore. Ed è proprio ciò di cui più abbiamo bisogno. Quanto ha fatto Dio per rendere fertile il nostro cuore! Più che fissare lo sguardo sulla nostra pochezza, allora, abbiamo bisogno di non distoglierlo dalla prodigalità con cui Dio si prende cura di noi. Nasce da qui la possibilità di imparare a coltivare noi stessi che equivale a lasciarsi coltivare da Dio.

Nel gesto largo della semina è contenuto l’invito a non aver paura dello spreco: accade sovente di chiedersi se davvero valga la pena fare una cosa, accompagnare un percorso, investire in un certo campo. In genere chi si pone questa domanda sposta l’attenzione sulle condizioni oggettive di ciò che è esterno da noi. L’invito, invece, che soggiace alla parabola del seminatore, è quello di non smettere di vivere di fiducia, nonostante i numerosi fallimenti. L’esito della semina, infatti, non è già precostituito: quante volte, infatti, abbiamo visto spuntare qualcosa di nuovo proprio là dove non ce lo saremmo aspettato!

C’è uno sguardo da levare, ripete a noi Gesù, proprio come fece con i discepoli dopo l’incontro con la Samaritana: “Levate i vostri occhi e guardate i campi che già biondeggiano per la mietitura” (Gv 4,35). Vorremmo volentieri stabilire noi i criteri per misurare tanti nostri investimenti e forse ci mancano gli occhi capaci di riconoscere ciò che Dio sta già facendo spuntare proprio attorno a noi. La capacità di seminare sempre e ovunque non è proporzionale alla preoccupazione del raccolto ma alla grandezza del cuore: solo un cuore dilatato non lesina gesti e parole.

La parabola del seminatore, infatti, ci parla di Dio e del suo cuore. Anche se sa che il suo amore potrà non essere accolto e perciò potrà andare sprecato, Dio non cessa di riversarlo con abbondanza e senza risparmio. Anche di fronte alla resistenze più manifeste e persino di fronte all’opposizione più dura, Dio non cessa di mettere a parte l’uomo della sua volontà di comunione con lui.

FONTELa larghezza di Dio
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