Una di quelle pagine – quella evangelica odierna – che, se accolta nella sua integrità, potrebbe davvero suscitare un diverso modo di intendere le nostre relazioni dentro e fuori la comunità cristiana. Perché questo accada occorre che ci mettiamo nei panni di Giacomo e Giovanni, che chiedono di essere i primi. Anche noi chiediamo sovente a chiunque abbia potere e immagine di farci uscire dal grigiore dell’anonimato, di essere qualcuno. È necessario che impariamo a stare a contatto con questa ansia di potere.
L’esigenza di emergere nella vita, di essere riconosciuti, stimati, accolti è un’esigenza in sé legittima e comprensibile: abbiamo tutti bisogno di stima e di riconoscimento per dare il meglio di noi stessi.
Chi vuol essere il primo…
Gesù non condanna l’ambizione di riuscire. Il problema, infatti, non è essere il primo. Noi siamo chiamati a riuscire nella vita, ma Gesù sposta l’orizzonte della domanda come a dire che la strada per riuscire non è quella che abbiamo imboccato. Quella è una strada chiusa. Il potere, annuncia Gesù, si conquista con la debolezza, il potere viene dal servizio, il primo posto si conquista con il dono.
Ciò che conta in vista dei primi posti è bere al calice di una vita donata, non trattenuta. La passione di grandezza abita il cuore di ciascuno di noi. Ma noi la giochiamo al tavolo sbagliato, dove i più grandi sono quelli che hanno troni. C’è, dice Gesù, un altro tavolo dove giocare la nostra partita. Quello di un mondo diverso, di una storia diversa, di rapporti altri. Siamo chiamati a passare dal tavolo dove si punta sull’amore per la forza a quello dove si punta sulla forza dell’amore.
Potete bere il calice che io bevo?
Per Gesù è questa la condizione e la garanzia che consente a un potere di rimanere tale e di non degradare in dominio. La via proposta da Gesù è bere al suo calice, vale a dire, se non passi dentro i drammi della gente, se non condividi, dal di dentro, non dall’alto, la sofferenza, se non ti coinvolgi nel calice amaro, la tua voce e il tuo potere non è una risposta né ai problemi, né alla vita, né alla morte. La tua è una commedia, è letteratura, è accademia. Quanta letteratura, quanta accademia anche all’interno della comunità cristiana!
Non così la vicenda di Gesù, che non è stata certo accademia.
Sono venuto per servire. Dio come nostro servitore. E noi ci ostiniamo ad annunciarlo come il padrone della vita. Dio non tiene il mondo ai suoi piedi. Dio, invece, è inginocchiato ai piedi di ogni creatura. I grandi della storia sono grandi perché hanno giocato e hanno vinto con la morte di loro rivali. Dio non gode della tua morte o della tua rovina. Non ha bisogno di troni: egli si cinge di un asciugatoio. Non cercare Dio guardando in alto, in cielo: prova a scorgerlo ai tuoi piedi. L’impero di Dio è lo spazio che tu gli concedi perché lui possa lavare i tuoi piedi.
Servire è una dimensione dell’intera esistenza e non già un frammento del nostro tempo e del nostro agire. Servire è un modo di esistere e non già un qualcosa di improvvisato o legato a un interesse immediato.
Il vero servizio non raggiunge soltanto il bisogno della gente ma le persone.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM