Parlava di Dio.
Parlava di Dio per immagini, per similitudini, consapevole che Dio non può essere ridotto ad una definizione, non può essere racchiuso in una spiegazione. Per questo, Gesù continuava a dire: Dio è come…, Dio è come…, ben sapendo che quanto diceva, era sempre ben poco rispetto a quello che Dio è realmente. D’altronde, se è vero che “Dio nessuno lo ha mai visto, proprio il Figlio unigenito lo ha rivelato”, potremmo mai mettere in discussione un tale modo di parlarne? Già l’AT lo aveva presentato come il padre, la madre, lo sposo, l’amico, il pastore: è questo, cioè, ma anche altro.
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Parlava di Dio come solo un innamorato può fare, altrimenti non capiremmo perché chiamarlo tesoro, perla. Il tesoro è ciò a cui tu leghi il cuore e la vita, la perla è ciò per cui daresti ogni cosa pur non di non perderla. Il tesoro, la perla sono ragioni di vita perché sono ragioni del cuore: prima ancora che prenderti la testa, Dio ti tocca il cuore e quando il cuore è rapito, non c’è ragione che tenga. E che uno è preso da Dio, dice Gesù, glielo leggi sul volto, negli occhi, nelle scelte, nei passi, nei pensieri, nella voce, nel tratto, nello stile, nell’atteggiamento. Prova a guardare un innamorato: da tutti i pori capisci che qualcuno gli si è impresso nel cuore. Un tesoro, infatti, non può essere un’appendice ma ragione e senso della tua stessa vita.
Parlava di Dio come di uno che è già presente nella tua vita, è all’opera, sebbene nascosto. Può trovarlo tanto chi lo cerca affannosamente quanto chi, invece, cammina distratto.
Poi parlava dell’uomo.
Parlava dell’uomo che ha la grazia di incontrare Dio, non come l’uomo del rimpianto o del distacco ma come colui che ha avuto l’occasione della sua vita, ciò per cui da sempre è stato pensato. Un po’ come quando impatti qualcosa che da sempre cercavi forse senza neppure saperlo o come quando qualcuno dice qualcosa a cui da sempre pensavi ma non avevi le parole per esprimerla. Non abbiamo mai detto a qualcuno di cui eravamo innamorati: tu sei la ragione dei miei giorni, del mio vivere e del mio morire?
Parlava dell’uomo non come di chi fa della rinuncia il suo stile di vita ma come di chi si lascia trasformare e condizionare dal ritrovamento, dalla scoperta.
Parlava dell’uomo non come di chi avanza per colpi di volontà ma per passione del cuore.
Parlava dell’uomo non come di chi fa del sacrificio il suo progetto ma come di chi sa di aver fatto un affare.
Così è Dio: qualcuno che ti capita davanti all’improvviso e la sola scelta intelligente è lasciare tutto per non perderlo più.
Certo, tutto cambia, ma il cambiamento è dovuto a un incontro che ti ha spalancato il cuore.
L’uomo del vangelo, infatti, non parla mai di ciò che ha lasciato ma solo di ciò che ha trovato. Se un distacco c’è stato è solo perché ha scoperto un’appartenenza ben più promettente.
Per poter riconoscere il tesoro che si lascia trovare da me, è necessaria la sapienza, la sola che fa sì che di giorno in giorno noi possiamo scoprire nel terreno della nostra vita ciò che Dio ha seminato di tanto prezioso. La sapienza è proprio l’arte di tenere insieme ciò che a prima vista sembrerebbe inconciliabile. Essa, infatti, è la capacità di tenere insieme le ragioni di Dio e le ragioni dell’uomo, il modo in cui Dio si rivela e il modo in cui l’uomo è in grado di riconoscerlo e accoglierlo, le decisioni da prendere e la gradualità dei passi da compiere.
Il sapiente è colui che continuamente riparte, di nuovo ricomincia, sempre persevera.
Egli è colui che pur sperimentando sulla sua pelle il peso della propria debolezza, da tutto si lascia ammaestrare e perciò non rifiuta mai l’invito di imparare a crescere.
AUTORE: don Antonio Savone
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