Che cos’è che ogni anno, come per incanto, in questa data che da sempre la tradizione cristiana lega al ricordo dei nostri cari defunti, fa sì che compiamo addirittura chilometri per non mancare all’appuntamento di un incontro con chi fisicamente non è più con noi? Forse che il nostro renderci presenti accanto alle tombe dei nostri morti ha il potere di restituire ai loro corpi una qualche possibilità? Con che spirito ci siamo accodati al lungo corteo di chi viene oggi a visitare il cimitero? Solo per un dovere di riconoscenza? È stata la nostalgia di un legame passato a metterci in cammino?
Tante sono le motivazioni che ci hanno portato qui quest’oggi quante le persone che ora sono qui.
Tuttavia, io credo che nel profondo del nostro cuore ci sia una tacita consapevolezza che in questo giorno riemerge con più forza e chiede di esprimersi anche con il pellegrinaggio, con un fiore, con un lume, con una preghiera, con le lacrime, con il silenzio: la consapevolezza che la morte non spezza i nostri vincoli. Non siamo venuti qui con la certezza che varcato il cancello del cimitero tutto sia finito. Non siamo venuti qui come “chi non ha speranza”. Siamo venuti qui con la certezza che “la vita non è tolta, ma trasformata”, come ci fa pregare il prefazio dei defunti.
Siamo qui per dire grazie a quanti con la loro presenza sono stati per noi come una carezza di Dio. Quanti! Grazie per chi ci ha testimoniato fino alla fine che vale la pena voler bene, vale la pena restare fedeli a un legame, a un affetto, vale la pena mettere in gioco la propria esistenza perché qualcun altro possa gioire della vita. Grazie a quanti hanno fatto della discrezione il loro stile di vita, del rispetto e della premura l’atteggiamento abituale del vivere i rapporti, della disponibilità la forma delle relazioni. Quanti!
Siamo qui per chiedere perdono a quanti a lungo hanno mendicato tacitamente una nostra attenzione e questa non è mai accaduta perché ci siamo lasciati prendere da altri miraggi, altre cose ritenute più importanti ci hanno sedotti al punto da passare accanto a chi chiedeva solo il gesto della compagnia senza che neppure ce ne accorgessimo.
Siamo qui per offrire il perdono a quanti ci hanno fatto del male e ci hanno lasciati senza mai chiederci scusa o addirittura maledicendoci. È necessario che questo accada se vogliamo continuare a invocare per noi il perdono del Signore.
Siamo qui per esprimere la nostra carità verso quanti non godendo ancora della gloria del paradiso hanno bisogno del sostegno della nostra preghiera oltre che della nostra solidarietà concreta.
Siamo qui per prendere coscienza che i nostri cari ci precedono in una esperienza che potrebbe essere la nostra in ogni istante. Come penso alla mia morte? Come mi preparo? Non sono domande per fare del terrorismo psicologico; sono gli interrogativi che devono guidare i nostri passi se vogliamo ridare senso ai nostri giorni. Cosa resta di tanto nostro affannarci? Cosa resta del male che ho fatto, dell’odio che porto dentro, del rancore che non riesco ad eliminare? Cosa resta dell’inimicizia? Come spero di ottenere misericordia del Signore se non sono in grado di usarla verso chi me la chiede?
Siamo qui per apprendere che la vita terrena è come una sorta di prova generale di ciò che in pienezza vivremo a partire dalla morte.
Siamo qui per imparare che i giorni a noi affidati sono come un tirocinio la cui esecuzione eterna comincia quando il Signore vorrà chiamarci a sé.
Siamo qui per capire cosa significa passare dal provvisorio al definitivo, dal temporale all’eterno.
Siamo qui per comprendere dalle età della vita: l’adolescente non può nascere se non muore il bambino che è in noi; il giovane che è in noi non può venire alla luce se l’adolescente non gli cede il posto; l’adulto non può essere generato se il giovane non fa un passo indietro; così l’uomo chiamato a stare per sempre con il Signore non potrà godere di questa pienezza se non attraverso la conclusione dell’esperienza terrena. Di gestazione in gestazione: questa l’esperienza umana. Fino in fondo. Per questo la morte non è la fine di ogni caso ma l’ennesima esperienza, certo traumatica, per essere generati a vita nuova.
Siamo qui per riconoscere che non è della morte che dobbiamo aver paura: non poche volte, infatti, nelle nostre storie, si consumano vere e proprie tragedie di fronte alle quali persino la morte impallidirebbe. Eppure stiamo di fronte ad esse con spirito di sufficienza. Da temere è aver rinnegato la vita ancor prima che venga la morte.
Siamo qui per riconoscere che la morte non è la vera nemica dell’uomo: “quanta tenerezza conservata nell’assenza delle persone care”. Vero nemico dell’uomo è il non amore.
Entra nella propria morte con serenità chi ha imparato a morire nelle varie esperienze della vita, chi ha riconosciuto, accettato e attraversato i vari passaggi che la vita gli ha chiesto di guadare.
Veniamo qui per apprendere cosa significa vivere e come imparare a morire.
AUTORE: don Antonio Savone
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