Se in tanti ambiti della nostra vita possiamo vantare conoscenze e competenze, non così nell’esperienza della fede (e dell’amore): siamo degli eterni principianti. C’è in noi il desiderio di credere e, tuttavia, sperimentiamo non poche volte l’incapacità a fidarci.
Per questo Pietro è il nostro nome, perché egli esprime a puntino la nostra stessa condizione: egli è un concentrato di slancio, di affetto, di capacità di osare ma anche di tanta paura e incapacità di tenere fede alla parola data. Il contrasto e il chiaroscuro – e, talvolta, persino la contraddizione – accompagnano la sua e la nostra esperienza. È il primo a riconoscere in Gesù il Messia atteso ma è anche l’unico ad essere chiamato satana; è il primo che si lascia ammaestrare non dalla carne e dal sangue ed è anche il primo ad essere riconosciuto come uno che non pensa secondo Dio; è il primo ad entrare nel sepolcro ma è anche il primo a venir meno nell’ora della prova; ha appena ricevuto le chiavi del regno dei cieli e si ritrova ad essere di inciampo al cammino del suo Maestro e Signore; è il primo a offrirsi come compagno nell’esperienza del dolore del Maestro ed è anche il primo a recalcitrare durante la lavanda dei piedi.
Pietro ci ricorda come al credente appartenga tanto la fede come certezza e stabilità quanto la paura, il dubbio, il vacillare. Perché mai? Da una parte perché Dio non si impone mai a noi con l’evidenza di una certezza matematica di fronte alla quale non si può che assentire (verrebbe meno proprio ciò che è tipico della fede, l’affidarsi della personale libertà), dall’altra perché la fede è tale proprio quando ogni sicurezza è stata sottratta: essa, infatti, comincia a germogliare quando le personali certezze e i propri appigli non reggono più e tu sei chiamato a fondare la tua vita sull’unica certezza che ti rimane, Dio.
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Era facile credere a uno che aveva provveduto alla fame di un intero popolo soltanto con cinque pani e due pesci. Potresti non fidarti di uno che riesce a ribaltare una situazione tanto difficile? Dostoevskij, ne “I fratelli Karamazov” annota: “Ci sono soltanto tre forze che potrebbero soggiogare per sempre la coscienza di questi deboli ribelli: il miracolo, il mistero, l’autorità. Ma tu le hai rifiutate tutte e tre, dando tu stesso l’esempio”. Il miracolo non fonda la fede: la fede nasce dall’ascolto della rivelazione di Dio così come Gesù l’ha resa. Il miracolo genera piuttosto opportunismo, ma non la fede.
Dio si rende presente, ma alla sua maniera, non alla nostra. È a volte lo fa addirittura attraverso lunghe stagioni di silenzio e di aridità. Non c’è giorno in cui Dio non sia eloquente sebbene quel giorno conosca, forse, l’interminabilità delle ore del sabato santo.
Ben a ragione, dunque, Paolo potrà dire “non di tutti è la fede” (2Tess 3,2), perché essa chiede l’esercizio più difficile che possa mai essere stato chiesto ad un uomo: abbandonare se stesso per ritrovare se stesso. Non tutti accettano una tale proposta. Per questo potremmo dire che chi arriva a compiere una tale conversione giunge al compimento autentico della propria umanità.
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L’angoscia, il timore, fanno parte della fede stessa: è lì che essa matura. La vita cristiana, infatti, non è una filosofia di vita che giunge finalmente a non sentire certi stati d’animo. Può sembrare paradossale ma è così: il credente nasce proprio nel cuore del dubbio più grande. Forse che gli apostoli hanno cessato di essere uomini di poca fede? Eppure è proprio di essi che il Signore si è fidato. Non è un caso che proprio a Pietro il Signore dirà: “E tu, una volta superata la prova, conferma i tuoi fratelli” (lc 22,32). Può confermare i fratelli nel cammino della fede chi ha patito sulla propria pelle la stessa tentazione di non fidarsi.
Finché dura quest’oggi non potremo che ripetere con Pietro: “Signore, salvami!”. Non basta, infatti, aver deciso di abbandonare tutto per seguire il Signore con tanto entusiasmo e fiducia. Forse che quel giorno in riva al lago Pietro non si era fidato del Maestro che gli aveva ingiunto: “Seguimi”? Eppure, dovrà imparare a sue spese, che avrà bisogno continuamente di misericordia e di salvezza. Di più: la sua fede maturerà in pienezza solo dopo aver ricevuto il perdono del Signore, ovvero la fiducia dell’amore. Solo allora Pietro potrà confessare: “Signore, tu sai tutto…”.
L’esperienza di Pietro e di tutti gli amici di Dio la vivrà anche il Figlio di Dio nel Getsemani, quando sperimenterà sulla sua pelle l’angoscia estrema dell’abbandono. L’angoscia non è tolta ma trasformata attraverso il gesto dell’affidarsi a chi sembra averti abbandonato proprio mentre ti è tolta ogni certezza. Imparare a costruire sul terreno di Dio: ecco cos’è la fede. A patto, però, di rinunciare alla tua terra. Così Abramo, così Elia, così Pietro, così il Figlio di Dio, così i figli di Dio. Se il Figlio di Dio ha conosciuto le ore drammatiche della notte oscura dovendo ridire che valeva comunque la pena non smettere di vivere affidato, potremmo esserne risparmiati noi? Proprio la fede attesta che c’è qualcosa che vale più della tua stessa vita e della tua stessa morte: “la tua grazia vale più della vita”. Se così non fosse non riusciremmo a capire il senso di quel martirio a cui tante generazioni di credenti hanno accettato di sottoporsi, anche in questi giorni.
Abbiamo bisogno di imparare tutti la provocazione di quel Gesù che se ne sta “solo”, a pregare. Se la fede, infatti, è generata dall’ascolto di ciò che Dio ha compiuto per noi, essa è nutrita dalla preghiera, dal colloquio con il Padre sempre di nuovo da ricercare per ritrovare la forza di continuare a fidarsi.
Autore: don Antonio Savone
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