Ascoltiamo oggi la versione lucana della parabola dei talenti. Una storia che ci invita a rileggere quanto il Signore, nella persona di Gesù, ha compiuto per noi e che forse un po’ troppo spesso dimentichiamo. Quel padrone che parte è il Signore Gesù che sta per lasciare i suoi e li mette a parte di tutto ciò che ha: la sua vita, la sua morte. Dirà Paolo: “Tutto è vostro…”. I doni sono i suoi e sono realtà che nessuno aveva in precedenza. Il talento non viene guadagnato o meritato. La moneta d’oro è ricevuta. Tutti i servi sono accomunati da questa realtà di dono. Nella vita cristiana, infatti, il punto di partenza non è rappresentato dal nulla, non partiamo da zero: c’è qualcuno che ci offre una base sicura da cui partire. Davvero tutto è grazia. Nella vita cristiana non vale il principio del “mi sono fatto da me” come può accadere in altre situazioni. Ben a ragione l’apostolo Paolo affermerà: “Che cos’hai di tuo che non hai ricevuto?”. L’impegno da parte nostra è solo la risposta ad un dono che ci siamo ritrovati tra le mani. Quanto ci viene consegnato diviene realmente nostro!
Sappiamo, però che pur essendo accomunati da questa realtà di dono offerta a noi dal Cristo, tuttavia, rispetto a questo dono divergono le modalità di accoglierlo.
Infatti, i primi due servi hanno considerato giustamente il dono ricevuto come appartenente a loro. Il padrone gliel’aveva regalato, consegnato. Se ne è privato lui per consegnarlo a noi.
Per questo i primi due non hanno avuto paura di rischiare, di coinvolgersi, di osare. L’altro invece non si è reso neppure conto che quel dono era suo, non è riuscito a credere all’amore, alla generosità del padrone. Quel dono, per lui, era solo una realtà da restituire, intatto. Il dono, ahimè, si è trasformato in motivo di paura e questa ha finito per paralizzarlo, per complessarlo, per inibirlo. Come non approfittare di quella occasione? Per questo il padrone gli dirà: l’avessi almeno portato in banca, ora riscuoteremmo gli interessi!
Ma che cos’è che genera la paura in questo malcapitato nel quale, forse, molti di noi non fanno fatica a rileggersi? In lui tutto dipende da una falsa immagine di Dio: “sei un uomo severo…”. Da questa immagine di un padrone inflessibile, non può che derivare un comportamento all’insegna della paura prima e del dovere poi. Il rendiconto diventa la scadenza di una cambiale: finisce per prendere la forma di una ossessione paralizzante. L’unica preoccupazione è quella di essere in regola. L’essere scrupolosamente osservanti di tutto ciò che è prescritto diventa il tutto che assorbe ogni energia. Tutto in lui è deposito morto, persino il dono dello Spirito, della Parola, sono come congelati. Ma alla fine congelando i doni finisce per congelare se stesso: non c’è più posto nella sua vita per il benché minimo slancio, per un’inventiva, per un colpo di fantasia…
Il Vangelo diventa mera osservanza di una norma. In un simile modo di vedere le cose tutto è interpretato secondo la logica del dovere. E Dio che fine fa? Dio diviene il giudice impassibile, il contabile. Non c’è spazio per una relazione d’amore dalla quale siano banditi il calcolo e la paura.
“Ecco la tua moneta d’oro”: siamo a posto, non ci sono carichi pendenti. Quando si prende la decisione di restituire i doni, è segno che si è arrivati alla fine dell’amore.
Tuttavia, finché dura quest’oggi, cioè il tempo della sua assenza – quanto mai prolungata forse per darci la possibilità di spendere quanto ci è stato consegnato – Dio rinnova per noi il dono: “I miei doni sono tuoi, sono a tua completa disposizione. Eccoti la mia misericordia, la mia tenerezza, il mio perdono, il mio amore”. Non siamo chiamati a conservare questi doni ma a impiegarli. Pensiamo solo alla moneta d’oro che è la vita, la fede, l’amicizia, il Vangelo, Gesù Cristo: quante volte diventano qualcosa di sotterrato perché li viviamo come un fatto privato e perciò ci limitiamo soltanto a custodirli, a preservarli, a non perderli. Quante volte abbiamo congelato i nostri rapporti nell’aridità, nella sterilizzazione dei sentimenti finendo per diventare freddi, senza alcuno spessore umano. Ricordiamo che il terzo servo viene definito “malvagio” non perché abbia fatto chissà che cosa di male ma perché lascia inutilizzati i doni ricevuti.
Il ritorno del padrone non coincide tanto con la resa dei conti quanto con la possibilità di rallegrarsi per i frutti che il nostro impegno ha suscitato. Non ci chiede di restituire. Il brano evangelico parla di presentare e presentare è diverso dal ridare indietro: ci chiede di riferire, di raccontare tutto ciò che è accaduto in quel lungo tempo di assenza.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM