Ci sono due verbi che potrebbero svolgere quasi la funzione di raccordo di questa liturgia della Parola: lasciare e accogliere.
Il primo lo sentiamo come una provocazione. Lo troviamo implicito in queste parole molto dure, inusuali, di Gesù: “Chi ama il padre o la madre… il figlio o la figlia più di me, non è degno di me”.
Cosa significa per noi?
Credo significhi: non mettere nulla davanti a Dio, nemmeno le creature che più ami, nemmeno loro. Nell’AT era già custodito questo monito. Nel libro del Deuteronomio è scritto: “Quando tuo fratello, tuo figlio o tua figlia o la moglie che riposa sul tuo petto o l’amico che ami come te stesso ti istighi in segreto dicendo: ‘Andiamo, serviamo altri dei…’, tu non dargli retta, non ascoltarlo”.
Il coraggio della scelta. E per scegliere occorre il coraggio di lasciare. Facciamo fatica a lasciare. Non vorremmo lasciare nulla, non vorremmo precluderci alcuna possibilità. E alla fine, però, rischiamo di non scegliere affatto. Quando questo accade è come un prolungare la fase adolescenziale dell’esistenza.
Sin dall’inizio, la Genesi ricorda: “Per questo l’uomo lascerà suo padre e sua madre, e si unirà alla sua donna e saranno una carne sola”. Il lasciare, l’abbandono, comporta sempre qualcosa di doloroso, ma se non tagli, la vita non può crescere, il futuro non può accadere. Se mai ci sarà la ripetizione, ma non il futuro.
Essere disposti a tagliare il cordone ombelicale. Il vangelo non ci chiede di cancellare i rapporti di affetto, di sangue o di amicizia, ma di rivisitare quelli che ti legano in modo ossessivo, soffocante. E quanti rapporti soffocano la tua libertà, la tua autonomia. Rivisitare i rapporti iperprotettivi, possessivi, quelli che in nome di un bene non ti consentono di crescere, non ti consentono di andare là dove tu sei chiamato ad andare, di essere là dove tu devi essere.
Anche Gesù a dodici anni ricorderà questa parola a Maria e a Giuseppe per collocarsi là dove la voce del Padre lo chiamava: “Non sapevate che io devo occuparmi delle cose del Padre mio”.
Il lasciare, nella nostra vita, non è mai fine a se stesso, ma sempre in vista di un incontro.
Poi, il verbo accogliere. L’accoglienza come uno dei nomi dell’amore. Accogliere, cioè dare ospitalità. Un accogliere su cui tu giochi l’accoglienza di Dio: “Chi accoglie voi, accoglie me”.
Un accogliere gratuito, non perché ne avrai un vantaggio.
Accogliere, senza nasconderci dietro l’alibi che non possiamo risolvere i problemi dell’altro: se puoi dare un bicchiere d’acqua, dà quello, anche solo un bicchiere d’acqua.
Un accogliere che non è solo un fatto esteriore, ma rispetto del mistero dell’altro: non l’invasione dell’altro, ma uno stare sulla soglia.
Un accogliere – ecco la costante promessa della Bibbia, che avrà come effetto una nascita. All’ospitalità è sempre legata la fecondità. Quasi a ricordarci che la casa non accogliente è sterile, quella che si apre è sfiorata dalla vita.
FONTE – Lasciare e accogliere – Lunedì XV del T.O.
CANALE YOUTUBE
TELEGRAM