“Stava”, così l’evangelista Gv sintetizza la missione e lo stile della Madre di Dio alla cui scuola torniamo a metterci per apprendere la difficile arte di essere discepoli del Figlio Gesù.
Stare vuol dire esserci. Quanto è importante l’esserci là dove la maggior parte – com’era accaduto agli apostoli – ripiega verso la fuga. Anche chi lo aveva professato come il Cristo e poi aveva proclamato solennemente che se anche avesse dovuto morire con lui, non lo avrebbe mai rinnegato, ora ha più nulla da spartire con “quell’uomo”, come dice alla serva che invece lo lega a lui.
Lo stare di Maria non è solo lo stare dell’esserci ma lo stare con dignità, in piedi, ritta. Il suo non è lo stare di chi ostenta una sicurezza che sfida. È lo stare che è attraversato dall’angoscia, dal dolore, dall’oscurità del momento, è lo stare che ha bisogno del sostegno di chi condivide il suo dolore, le altre donne e il discepolo amato.
Tante domande avranno attraversato il suo cuore. D’altronde, ad appena quaranta giorni dalla nascita di quel Figlio, le era stato profetizzato che quel bambino sarebbe stato un “segno di contraddizione”. E come se non bastasse, Simeone aveva aggiunto: “e anche a te una spada trafiggerà l’anima”. Chissà quante volte l’immagine dell’anima trafitta le sarà tornata alla mente! Dalla fuga in Egitto a quando quel Figlio lascerà la sua casa a tutte le volte che cercheranno di ucciderlo: chissà come avrà vissuto la crescente inimicizia nei confronti del suo Gesù!
Per non parlare di ciò che i parenti pensavano di suo figlio: “è fuori di sé”, riporta Mc. Più avanti aggiungerà: “è posseduto da un demonio!”. Gv, con maestria riporterà che “i suoi fratelli non credevano in lui”.
E poi ancora quel giorno in cui Maria e i suoi parenti si mettono sulle sue tracce per cercarlo e per tutta risposta si sentono dire che i veri “suoi” sono altri non loro. Che trafittura! Eppure l’angelo le aveva detto che il frutto del suo grembo sarebbe stato santo e chiamato Figlio di Dio. Possibile che il Figlio di Dio è trattato così? Possibile che il Figlio di Dio è condannato dalle autorità religiose che l’ebrea Maria non poteva non riconoscere? Questo è il Figlio di Dio?
Nonostante le domande nel cuore e nella mente, nonostante la trafittura dell’anima, il suo posto era lì, nonostante tutto.
Proprio il suo stare interpella il nostro. Quante piccole o grandi trafitture di spada viviamo anche noi! Situazioni che ci fanno chiedere: è possibile stare sotto la croce che quelle situazioni ci fanno sperimentare? E se proprio non è possibile fare diversamente, che cosa consente di stare?
Bando ad ogni risposta facile, a un’idea di Dio o di fede che ha la pretesa di estirpare ogni timore, ogni angoscia. Di Maria, Iacopone da Todi dice: “Stabat Mater dolorosa… lacrimosa”. Il dolore rende sempre insicuri, misura tutta la fragilità e registra tutto il nostro smarrimento.
Stare sotto la croce significa riconoscere che nell’esperienza della fede non c’è il conforto dell’evidenza: c’è sempre qualcosa che sfugge alla nostra presa. Se è il Figlio di Dio, perché muore e muore come un malfattore? Perché un amore voluto da Dio finisce, invece, per naufragare? Perché un figlio tanto atteso, all’improvviso ci viene tolto? Perché un traguardo raggiunto con tanti sacrifici, svanisce nel nulla della superficialità? Cosa ha da spartire tutto questo con la mia fede?
Al cuore della nostra fede c’è la croce, dunque c’è qualcosa che fa scandalo: essere credenti significa misurarsi con questo scandalo.
Il vangelo non tace il buio che si è riversato sulla terra al momento della morte di Gesù. La fede ha a che fare con l’oscurità, anzi, è un camminare nell’oscurità. Parliamo, sì, della luce della fede, ma si tratta di una luce umile, non abbagliante, quella che consente di compiere solo il primo passo, non di rischiarare tutto il percorso. Una luce che rischia di essere resa invisibile là dove ci sono bagliori più sfolgoranti.
Accetto, come Maria, questo frattempo, custodendo l’attesa e tenendo viva la speranza o, a causa della stessa situazione, preferisco fuggire come i due di Emmaus?
“Stava…”.
Il femminile è l’elemento che, per amore, sa giungere fino all’inferno pur di non disgiungersi dall’amato. Per quanto dolore possiamo aver procurato alle nostre madri con i nostri capricci o con le nostre scelte sbagliate, esse ci sono sempre. Chi ha donato la vita a qualcuno, non gli chiederà mai conto di come l’ha spesa. Continuerà ad esserci, comunque.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM