Il percorso a noi proposto dalla liturgia è un vero e proprio processo di integrazione tra ruolo e identità.
Quando il ruolo ha nulla a che spartire con la propria esistenza e il personaggio ha la meglio sulla persona, si finisce per diventare mercanti di parole, uomini e donne che inalberano orgogliosamente insegne e titoli, gente che dimena di contentezza quando si sente osservata.
È il rischio dal quale ci mette in guardia questa pagina di vangelo troppo poco frequentata e che ci invita a prendere in considerazione i fatti non le apparenze, le scelte non i discorsi, i gesti non i proclami. Si diventa grotteschi – sembra ripetere Gesù – quando, per un piccolo ritaglio di potere, si crede di poter spadroneggiare su tutto e su tutti. Purtroppo, nessuna forma di potere – neanche quello religioso – è esente da questo rischio.
Forse dovremmo tradurre diversamente il secondo comandamento (non nominare il nome di Dio invano) con non utilizzare il nome di Dio invano.
Ci condiziona uno spasmodico bisogno di doverci distinguere a tutti i costi; siamo fagocitati dalla sete di dominio; ci seduce la voglia di esibirci pur di ricevere plauso e stima altrui, ci illudiamo di poter fare a meno di assumere il peso della partita che abbiamo scelto di giocare; ci attraversa una sorta di nevrosi quando ci rifugiamo in piccole o grandi manie rituali; diventiamo intransigenti nei giudizi sugli altri mentre a noi concediamo larghi sconti. Ma tutto questo è una strada senza uscita, strada delle nostre inconsistenze, strada che scambia l’essere con l’apparire: per questo non troviamo alcun eufemismo nelle parole di Gesù mentre denuncia la situazione di chi, chiamato a favorire la possibilità di conoscere Dio, ne è divenuto addirittura un ostacolo.
Altra è la strada che la comunità cristiana è chiamata a imboccare: quella di una presenza che non ricerca posti prestigiosi ma ruoli umili, nascosti; quella di una presenza che non ambisce riconoscimenti ma è capace di assumere ciò che spesso risulta sgradito ad altri.
Non poche volte siamo attraversati dalla convinzione che l’autorità delle nostre parole passi attraverso quel ruolo che ciascuno di noi riveste nei confronti di qualcun altro (della serie: tu non sai chi sono io?). Ma non è una cattedra o un qualsiasi ruolo istituzionale a conferire peso a ciò che di valido possiamo trasmettere, quanto l’autorevolezza che passa attraverso uno stile che, prima ancora che dire, già incarna quanto poi potrà essere enunciato con la bocca.
Non fate come loro…
Se almeno riuscissimo a cogliere l’affetto che parole come queste lasciano trasparire. Non fare così, ripete chi ha a cuore la vicenda delle persone a cui si sente legato.
Non fate come loro…
Dire e non fare tradisce un comportamento ipocrita.
Legare fardelli e non portarli, equivale a compiere uno sfruttamento: quanto diverso il clima là dove è dato di respirare dal proprio stile lo sforzo di vivere almeno con un dito quanto si annuncia agli altri!
Operare il bene per suscitare ammirazione e adulazione, significa essere persone superbe: la vita ridotta a spettacolo.
Amare posti di onore e ossequi, attesta tutta la nostra stupida boria mentre siamo incapaci di un sano realismo su noi stessi.
Un modo distorto di intendersi genera un modo distorto di operare.
Trapela dalle parole evangeliche un invito ad essere umili che equivale, poi, ad essere veri.
Mi piace concludere con le parole di un pastore cristiano che è stato in mezzo ai fratelli fino alla fine, proprio come il Signore Gesù:
“La comunità cristiana non ha bisogno di personalità brillanti, ma di fedeli servitori di Gesù e dei fratelli. Non le mancano elementi del primo tipo, ma del secondo. Si può riconoscere autorità nella cura pastorale solo al servitore di Gesù Cristo, che non cerca autorità per sé, ma che si inchina all’autorità della Parola, come un fratello tra i fratelli” (D. Bonhoeffer).
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM