In cosa consiste la mitezza? Nel lasciar essere l’altro quello che è (N. Bobbio). Ritornano qui le parole che Francesco scriverà nella “Lettera ad un Ministro”: “… e non pretendere che gli altri siano cristiani migliori”, dove per “altri” si intende coloro che gli procurano ostacoli e percosse. Diceva ai frati: “La pace che annunziate con la bocca, abbiatela ancora più abbondante nel vostro cuore. Non provocate nessuno all’ira o allo scandalo, ma tutti siano attirati alla pace, alla bontà e alla concordia dalla vostra mitezza. Questa è la nostra vocazione: curare le ferite, fasciare le fratture e richiamare gli smarriti. Molti infatti, che ci sembrano membra del diavolo, un giorno saranno discepoli di Cristo” (FF 1469).
Il mite non entra nel rapporto con gli altri con il proposito di gareggiare, di confliggere e alla fine di vincere. Noi tutti sappiamo come il motore delle relazioni interpersonali sia l’invidia, quel sentimento che si declina come desiderio di essere l’altro, con qualcosa di preferibile agli occhi di un eventuale giudice che varia secondo le circostanze, sia esso un genitore, un amico, un professore, un datore di lavoro, un superiore…
La mitezza fiorisce in seno all’umiltà – mite e umile di cuore, aveva detto di sé Gesù – cioè in quella consapevolezza della comune fragilità che ci fa condividere la condizione degli altri, ci trattiene dal condannare chi sbaglia e ci spinge ad aiutarlo a sollevarsi. Perché fiorisce nel terreno dell’umiltà? Perché l’umiltà è propria di chi riconosce di non possedere la verità, ma di esserne in ricerca. “È per la felicità come per la verità: non la si ha, ma ci si è” (Adorno). Il più grande male nasce dalla presunzione del bene, dall’ignoranza del proprio limite. E questo anche all’interno della comunità cristiana: al bene, infatti, si può solo aderire, può essere scelto, mai imposto.
Un atteggiamento, dunque, mai prevaricante nei confronti degli altri, che lascia essere l’altro e soprattutto lo lascia essere così come è.
La mitezza è atteggiamento che si adotta non quando l’altro è buono: si è davvero miti quando l’altro è indocile, ribelle. Ecco perché non è un dato di carattere ma uno stile da apprendere: imparate da me – aveva ripetuto Gesù – che sono mite e umile di cuore.
Assumere uno stile relazionale improntato a mitezza significa aprirsi all’accoglienza: comporta, perciò, un certo diminuirsi per lasciarsi toccare dall’altro comunque esso sia. Diminuirsi per far spazio all’altro: il lasciare spazio all’altro è la forma più alta del darsi. Il Signore Gesù è colui che continuamente si ritrae pur nella consapevolezza di operare il bene: guarisce il cieco, sana il lebbroso ma lascia all’altro la sua libertà e la sua responsabilità: “Va’ e non peccare più…”. Questo è lo stile di Dio il quale perché il mondo accada deve ritrarsi, continuamente. Questa è mitezza: lasciare spazio all’alterità umana ed esporsi anche alla libertà imprevedibile dell’uomo. La mitezza è quell’atteggiamento che impara ad addomesticare la forza che pure vorremmo esprimere nella sfera relazionale.
Il Signore Gesù, lui per primo intraprende un percorso improntato a mitezza: egli che era l’unigenito Figlio di Dio non tenne per sé questa ricchezza e questa prerogativa ma scelse di diventare primogenito di molti fratelli arrivando a condividere con loro quanto più gli era proprio. E diventato primogenito di molti fratelli, rinunziò persino al diritto di primogenitura: e da primogenito si fece ultimogenito ponendosi non sopra il fratello e neppure alla pari con esso ma ai suoi piedi. E quando sulla croce il fratello arriva persino a togliergli la vita, l’unica che ha, neanche allora Gesù si sottrae all’esperienza della fraternità (G. Salonia).
Il mite resiste al male senza però scendere sul suo terreno e senza adottare i suoi metodi.
“Quelle cose che ti impediscono di amare il Signore Iddio, e ogni persona che ti sarà di ostacolo, siano frati o altri, anche se ti percuotessero, tutto questo tu devi ritenere come una grazia. E così tu devi volere e non diversamente… E ama coloro che ti fanno queste cose. E non aspettarti da loro altro, se non ciò che il Signore ti darà. E in questo amali e non pretendere che siano cristiani migliori… E in questo voglio conoscere se tu ami il Signore… se farai questo, e cioè: che non ci sia mai alcun frate al mondo, che abbia peccato quanto poteva peccare, il quale, dopo aver visto i tuoi occhi, se ne torni via senza il tuo perdono misericordioso, se egli lo chiede; e se non chiedesse misericordia, chiedi tu a lui se vuole misericordia” (FF 234-235).
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM