La sazietà che non nutre
Dar ragione dei propri passi e purificare le nostre domande…
Ecco dove ci conduce questa liturgia: a chiederci cosa cerchiamo quando ci mettiamo alla ricerca del Signore. Di che cosa ho veramente bisogno?
C’è una folla che va dietro a Gesù perché è stata saziata. Dà sicurezza un uomo che dice: prendi, mangia! Quante volte ci ha sedotto il miraggio di chi potesse finalmente assicurare approvvigionamento, dispensandoci dalla fatica di dover procurare da noi il necessario!
La folla è incapace di sintonizzarsi sulla stessa lunghezza d’onda di Gesù. Essa continua a inseguire qualcosa che plachi il suo bisogno. È incapace di dare un nome a quella fame più profonda che porta dentro e perciò non riesce a individuare un pane adeguato. Per questo faticherà a compiere il passaggio che Gesù le proporrà: non sarà in grado di passare dal ricercare Gesù per aver visto ciò che egli aveva fatto nei confronti dei malati, alla fede di chi decide di restare solo perché riconosce che la sua parola è parola di vita vera; non riuscirà a passare dal bisogno di mangiare a quello di stabilire un rapporto personale con Gesù. Non a caso la maggior parte di coloro che si erano messi sulle tracce di Gesù, indietreggerà. Resisterà ad essere messa in discussione.
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È l’equivoco di sempre: l’uomo è alla ricerca di Dio perché in fondo pensa che sia una facile assicurazione sulla vita. Dio utilizzato in vista dei propri scopi; ma il pane di Dio ti mette in guardia dalla sazietà. È un pericolo su cui vigilare quello di mettere anche Dio, anche la religione, anche le relazioni, anche le cose che facciamo, a servizio della sazietà, direi, a servizio del proprio ben-essere.
La gente ci aveva preso gusto, dominata com’era dalla logica del “che me ne viene?”. L’approccio al reale è mediato da una lettura superficiale come testimonia la domanda posta a Gesù: “quando sei venuto qua?”. Non riesce a porsi la domanda sul perché. E Gesù non tarda a manifestare il suo disagio e a smascherare le vere motivazioni di quella traversata: “Voi mi cercate non perché avete visto dei segni, ma perché avete mangiato di quei pani e vi siete saziati”.
Comincia così un vero e proprio percorso educativo che il Signore non cessa di farci compiere. Il fraintendimento della folla non rappresenta un ostacolo per lui. Anzi, è piuttosto l’occasione perché essa approdi a un nuovo modo di guardare le cose, se acconsentirà a non fermarsi al bisogno e accetterà di leggere quel pane di cui si è saziata, come segno di qualcos’altro. C’è un oltre da riconoscere, dice il Signore: la vita non può essere ridotta a un cibo da mettere in bocca. La bocca non basta per esprimere il valore reale delle cose: è uno stadio regressivo fermarsi alla dimensione orale dell’esistere. È il bambino che tutto misura portando alla bocca, ma non l’adulto.
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Per l’adulto, infatti, il pane ha una forte valenza simbolica. Nutrirsi di esso significa che nessuno di noi è in grado di assicurarsi la sussistenza da solo: essa è assicurata soltanto da qualcosa di esterno a noi. Non è forse così sin dai primi vagiti? Essere nutriti ci assicura dell’essere amati. E perché essere grati se non per la consapevolezza che io devo tutto di me ad un altro? Perché l’Eucaristia se non per dire grazie per la vita a noi partecipata mediante la morte e risurrezione di Gesù?Ge
sù insiste: procuratevi un cibo che non perisce… Non basta placare i morsi della fame. Il problema, sostiene Gesù, è individuare il pane vero e lasciarsi trasformare da esso. Finché a dominarci sarà la logica vorace del possesso, non ci sarà pane che potrà saziarci fino in fondo. In guardia, perciò, dal leggere la vita soltanto come una spasmodica soddisfazione dei propri bisogni. È un atteggiamento mortifero, senza uscita. Quante esistenze sazie ma spente, morte!
La nostra fame vera, infatti, sarà saziata solo quando all’accaparramento saremo in grado di sostituire la logica del dono e dell’offerta di sé. Ciò che dura in eterno non è quanto finalmente sarai riuscito a cristallizzare come tuo, ma quanto sarai stato capace di condividere nell’amore. Perché mai Gesù aveva messo alla prova i discepoli se non perché imparassero a non trattenere nulla di sé? “Nulla di voi trattenete per voi affinché totalmente vi accolga colui che totalmente a voi si dona”, dirà Francesco di Assisi.
Il pane che non perisce non è un altro genere di pane: imputridisce nelle nostre stesse mani tutto ciò che tratteniamo egoisticamente, mentre ha il carattere di eterno ciò che è condiviso.
Che cosa è necessario compiere per avere questo pane, chiede interessata la folla che, tuttavia, continua ad equivocare? Una cosa soltanto: credere, vale a dire, lasciarsi coinvolgere nello stesso stile che ha contrassegnato la vita di Gesù, una vita fatta pane per la fame di altri.
Al popolo che chiede cosa sia necessario compiere, Gesù risponde che l’unica cosa da fare è lasciarsi trasformare in colui di cui ci si nutre. Lasciarsi fare da lui. Imparare ad alzare gli occhi al cielo e non passare la vita a precipitarsi su qualcosa che può saziare solo per un istante. Se non riesci a dare un nome a ciò di cui ti nutri (Che cos’è?, si chiedevano gli Ebrei nel deserto), se non riuscirai a leggere tutto come segno di un Dio che sempre provvede alla fame del suo popolo, potrai ingurgitare tutto il cibo di questo mondo ma non ti sarai mai nutrito.
Ancora una volta emerge l’incomprensione dei suoi interlocutori: quale segno compi perché vediamo e ti crediamo? A nulla era valso quanto era accaduto soltanto il giorno prima. Era bastato solo a saziare la fame del corpo. Quella folla è incapace di lasciar parlare la vita.
Se Dio dispensasse qualche segno… così preghiamo talvolta, ma la fede non matura in modo automatico dal segno ma dal saper leggere i segni.
Dacci sempre questo pane… Ecco la domanda giusta: ma guai a far sì che questa richiesta venga dallo stomaco e non dal cuore.
Per gentile concessione di don Antonio Savone dal suo blog | CANALE YOUTUBE | TELEGRAM