La percezione di sentirsi sbagliato: questo era ciò che verosimilmente pativa sulla sua pelle quell’uomo affetto dalla lebbra, la “primogenita della morte” (Gb 18,13). Costretto a vivere in un esilio permanente a motivo della sua infermità fisica, ma ancor più a motivo di pregiudizi culturali e religiosi che lo ritenevano escluso da un percorso di socialità e di santità: l’impuro non avrebbe mai potuto relazionarsi ad alcuno e non avrebbe neppure potuto rivolgersi a Dio, il puro per eccellenza.
La sua era la condizione di chi aveva visto tagliarsi tutti i ponti proprio per quella sua impurità. Uomo senza diritti, era una vera e propria zavorra di cui liberarsi in qualche modo. Portava sulla sua pelle il segno di una maledizione divina: quel morbo era sempre ritenuto colpevole (Chissà cosa deve aver compiuto!). Un vero e proprio rifiuto ambulante: oggi noi lo definiremmo “la personificazione del senso di colpa”, quello di chi, toccato nella propria carne, si chiede per quale responsabilità debba patire quella sofferenza.
Quell’uomo, tuttavia, per quanto provato, non è un rassegnato (a volte accade che ci rassegni, soprattutto quando si sono viste sfumare non poche possibilità di riscatto). In fondo non aveva nulla da perdere: tutt’al più gli sarebbe arrivato un sasso contro per aver osato avvicinarsi troppo. E per questo non accetta lo status quo stabilito da quella che oggi definiremmo una “religione da bancarella” che troppo spesso fa corrispondere i sintomi di una malattia con ’impurità morale, il dolore con la colpa, la sofferenza con l’espiazione. A questo punto non ha più paura di infrangere una vera e propria scomunica riconoscendo, in qualche modo, che la sua emarginazione era solo una caricatura di quella volontà di Dio che gli uomini avevano piegato a ordini sociali alquanto discutibili.
Se vuoi… Quanta dignità in queste due parole! Quale delicatezza in quel chiedere senza pretendere! Una malattia e una condizione non avevano distrutto la sua dignità.
Quel se dice tutta la discrezione di chi chiede qualcosa lasciando però all’altro la libertà di soddisfare o meno la sua richiesta, ma è anche una parola che in qualche modo obbliga l’altro a svelarsi, a dare una risposta. Quel se dice: tu da che parte stai? Penso ai tanti se vuoi con cui le nostre vite si confrontano, il più delle volte non verbalizzati dalle labbra ma espressi da una postura, uno sguardo, un silenzio, una condizione.
Il lebbroso di cui non conosciamo né il volto né il nome è l’uomo, ogni uomo sbalzato a terra dalla carovana troppo rapida e troppo indifferente di un mondo che per preservare la vita, crea condizioni di morte. Quanti terribili tipi di lebbra invalidanti conosciamo oggi? Quante diversità recidono ancora oggi dalla comunità? Quanti muri e frontiere tracciamo come separazioni insanabili oggi? Quanti e quali sono i moderni segnati? Ogni vita muore se non è toccata, muore di silenzi. Molte vite possono morire per assenza d’incontri.
È questo ciò a cui Gesù si ribella con quel fremito interiore proprio di chi arriva a sentire il dolore dell’altro. Volontà di Dio non è emarginare, non è prestare il fianco a una “religione da bancarella” ma chinarsi su un uomo fragile per ristabilirne l’integrità.
A guarire quell’uomo non sarà una parola ma un gesto: Gesù tocca ciò che tutti evitano, senza paura di una eventuale contaminazione. Se tutto un mondo ha scavato un fossato attorno a quell’uomo in ginocchio, quel gesto di Gesù è la costruzione di un vero e proprio ponte. Il gesto che Gesù compie non è un atto di carità: si tratta di una vera e propria eresia. Dio si sporca le vesti: anzi di più. Ci sarà un vero e proprio scambio di panni: se prima era il lebbroso a dover stare alla larga dal consesso umano, ora è Gesù a non poter più oltrepassare le porte di una città. Dio non si sottrae neppure di fronte all’infezione della lebbra. E accade che “non è il sano a rimanere contagiato dal malato, ma è il malato ad essere risanato da colui che è sano”.
Il lebbroso scopre che quella sua situazione non era una condanna e che quella sua ferita era una feritoia attraverso la quale doveva passare la misericordia di Dio. Forse il lebbroso di Galilea non sapeva la portata di quel suo aver osato avvicinarsi a Gesù: la sua fede ha fatto franare tutto un muro di riserve, paure, situazioni intoccabili. Quel suo se vuoi, ha permesso a tutti noi di non sentirci più sbagliati.
È bello ritenere che il suo non obbedire al silenzio che Gesù gli aveva imposto nascesse dal fatto che stesse pensando a tutti quanti noi che poco o tanto registriamo qualche piaga, per farci comprendere che davvero nulla è come prima, tutto gira al contrario se Dio si commuove, se la sua purezza non è altro che passione per le nostre fragilità, se la sua santità non teme di stare a contatto con dei peccatori come noi e se la sua mano riscatta ogni emarginazione.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM