Ascoltando una pagina evangelica come quella odierna viene spontaneo concludere: lasciamo perdere. Questo è un vangelo da Dio, non da uomini. Già, un vangelo da Dio. Così fa Dio. Ma così è chiamato a fare anche l’uomo: “Siate misericordiosi come è misericordioso il Padre vostro celeste”. Sta qui il senso della vita cristiana: nell’esercizio concreto di un perdono che diventa l’annuncio più vero della paternità-maternità di Dio. Come è possibile perdonare?
“Ricordati…”. Che cosa devo ricordare? Che il nostro rapporto con Dio è come quello di quel funzionario convocato alla corte del re perché renda conto della sua amministrazione. Quel funzionario si è dimostrato un pessimo amministratore, con un ammanco sull’ordine di molti miliardi. Un vero e proprio buco economico a cui mai e poi mai potrà mai far fronte. A quel re non resterebbe che applicare le sanzioni del diritto vigente nelle corti pagane: vendere come schiavo il debitore insieme alla moglie e ai figli. Mt ci dice che ogni creatura è davanti a Dio simile a quel funzionario, cioè costitutivamente insolvibile.
E qui emergono i tratti del volto di Dio, il quale si impietosisce al punto non solo di riaccettare la dilazione ma addirittura di condonare tutto il debito. Un Dio, cioè, che ha un punto debole: il commuoversi delle viscere. Al discepolo pervenuto alla consapevolezza di essere debitore impossibilitato a saldare, non resta che ripetere le parole di Gesù: “rimetti a noi i nostri debiti”. È questa invocazione che di nuovo, ogni giorno, ha in sé la forza di attivare la compassione di un Dio il cui è nome è da sempre viscere di misericordia. Si chiama così il nostro Dio. Non vi è tipo di peccato o numeri di peccati che non possa essere perdonato a chi con tutto se stesso invoca: “Signore, abbi pietà di me”.
Perché tutto questo? Perché ciò che d’ora in avanti tu sei in grado di compiere, conta di più, perché tu sei più di ciò che sei, perché tu sei ciò che puoi diventare. Tu non sei il tuo male, tu sei il progetto di Dio ancora da realizzare. L’uomo non coincide con il suo peccato ma con le sue possibilità più grandi. E con questa Gesù non banalizza la colpa, ma riapre il futuro. Per lui il possibile è più importante di ciò che è stato. Per questo perdona, perché l’uomo non è rivelato dal suo peccato. Egli vede oltre noi. E vede la nostra vita “d’ora in avanti…”, come un perenne ricominciare, di inizio in inizio. Perché anche il nostre nome, come il suo, sia viscere di misericordia.
Ecco perché il numero proposto da Pietro impallidisce di fronte al numero di Dio, che indica la sproporzione del perdono.
Quando Dio perdona, non si accontenta di cancellare pena e colpa, non compie un gesto che lascia colui che è perdonato sostanzialmente passivo, ma genera in lui la sua stessa capacità di misericordia, lo rende misericordioso. Il perdono ricevuto è sempre un atto creatore.
Eppure il servo della parabola se da una parte diventa per noi modello del che cosa fare per entrare nella misericordia, diventa anche figura del che cosa fare per sottrarsi alla stessa misericordia. Il suo è un incontro con Dio dimezzato. Perché alla sua preghiera: rimetti a noi i nostri debiti, non fa seguire il come noi li rimettiamo ai nostri debitori. Il perdono ricevuto non diventa in lui l’impegno a fare altrettanto nei confronti del suo piccolo debitore.
“Appena uscito, quel servo trovò uno come lui”. Appena uscito, cioè, ancora con la gioia insperata di un condono che appariva impossibile, appena liberato, appena restituito alla possibilità di fare dei progetti, prende per il collo al punto di strozzarlo chi gli doveva appena quattro soldi (tre mesi di lavoro). Lui perdonato di miliardi.
Che cos’è allora il perdono? Esso non è una norma, una legge, ma una profezia, cioè una parola provocatoria dentro l’arida storia dei rapporti umani guidati dalla regola dello scambio paritario del tanto mi dai tanto ti do. Il perdono non è una sorta di complicità con la propria o con l’altrui infedeltà, ma l’essere consapevoli che non la durezza ma solo la misericordia è in grado di rialzare chi di per sé è inchiodato al proprio male.
AUTORE: don Antonio Savone
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