La nostra storia ha una superficie e ha una profondità. La superficie della storia è quella che è sotto gli occhi di tutti, quello che ciascuno di noi registra nel suo accadere e che non sempre riesce a leggere oltre il mero fatto di cronaca; la profondità, invece, ci è svelata dalla parola di Dio la quale ci parla di uno scontro tra colui che l’Apocalisse chiama l’Accusatore e i discepoli del Signore Gesù. Uno scontro che accade anzitutto in ciascuno di noi prima ancora che fuori di noi. Su che cosa avviene lo scontro? Su una verità fondamentale. La vita cristiana, infatti, nasce e si invera a partire da una certezza: che niente e nessuno potrà mai separarci dall’amore con cui Dio ci ha amato in Cristo. In quella lotta ingaggiata in profondità, c’è sempre qualcosa che vorrebbe strapparci via questa certezza e convincerci che così non è, convincerci che è inutile pensare la vita in termini di dono, infruttuoso pensarla in termini di fedeltà, inutile.
Perché Giovanni ingaggia quella lotta strenua? A motivo della sua appartenenza a Cristo che egli non vuole rinnegare anche a costo di morire. Con quella lotta Giovanni testimonia ancora che l’uomo è più grande di tutti i poteri di questo mondo: egli si inginocchierà solo davanti al Signore. Giovanni diventa così testimone del fatto che solo Gesù Cristo è il Signore e che l’uomo ha una dignità che è sovrana. Io da che parte sto? Quanto il bene dell’altro mi sta a cuore?
Giovanni non si è vergognato di proclamarsi discepolo di Gesù perché sapeva che nulla doveva essere anteposto alla fedeltà al suo Maestro. In un contesto in cui si fa un gran parlare di tolleranza sembra fuori luogo ricordare figure di martiri che con la loro morte hanno attestato la verità in cui credevano. Sembrerebbe quasi una pericolosa presunzione da abbandonare se si vuole superare quella intolleranza che non esiterà a metterlo a morte. Le tensioni non si annullano eliminando le differenze. Non è possibile vivere convinti che non ci sia nulla per cui valga veramente la pena di morire dal momento che non c’è nulla per cui valga la pena di vivere. La testimonianza di Giovanni martire dice a me: c’è qualcosa nella tua vita che dà senso e gusto al tuo vivere tanto da morirne?
Il più grande male non è il perdere la vita ma “per amore della vita fisica, perdere le ragioni del vivere”.
La libertà del morire è racchiusa in una libertà precedente: quella di aver scelto un modo di vivere esposto alla contraddizione e alla violenza; il martire non sceglie la morte ma un modo di vivere come Gesù.
Esiste una vita che può essere soppressa dal potere di questo mondo: esiste una vita che nessun potere di questo mondo può sopprimere. Il martire ha permesso che fosse soppressa la prima, per salvare l’altra. Egli è sembrato essere uno sconfitto, perché fu rinnegato davanti agli uomini. In realtà egli vinse, perché fu riconosciuto dal Cristo davanti a Dio. Nel martirio accade, così, uno straordinario paradosso: chi è sconfitto, in realtà è vincitore e chi prevale, in realtà, è uno sconfitto; chi muore, in realtà vive; chi vive, è in realtà già morto.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM