La fecondità del seme che muore
Ai greci saliti a Gerusalemme che esprimono un sincero desiderio di conoscere Gesù e di credere in lui, Gesù consegna una parola che è la sintesi di tutta la sua esistenza. La sua vicenda è racchiudibile in un chicco di grano che accetta di entrare nell’esperienza della morte per portare frutto. È interessante, a tal proposito, una traduzione di questo versetto che mi convince di più: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo un chicco di grano.
A chi desidera conoscere qualcosa di Gesù, Gesù stesso dà appuntamento sotto la croce. Non la croce come sofferenza, fallimento – questo è un aspetto di essa – ma la croce come manifestazione della dell’amore incondizionato di Dio.
A chi desiderava vederlo, Gesù non risponde con un elenco di verità ma con l’essere messi a parte di un’esperienza di amore. Là dove la vita è schiacciata, là dove potrebbe esserci solo il rancore e il desiderio di vendetta, là dove la morte sembra avere la meglio, là dove la violenza si esprime in tutta la sua crudeltà, proprio là è dato di riconoscere il vero Dio. Quando è Dio? Lì è Dio. Perché? Perché solo lì l’amore è espresso nella sua totalità e non nei suoi ritagli. È questa manifestazione che da duemila anni continua ad attirare uomini e donne. Non è un’idea a salvarci, neppure un progetto magnifico: ci salva il sentirci amati fino a questo punto.
I greci avrebbero voluto che Gesù esibisse segni di potenza. Accade anche a noi di chiederne soprattutto quando la realtà sembra smentire il senso, la plausibilità e l’opportunità (non importunare il Maestro, avevano ripetuto un giorno alcuni servi) di una fede. Decliniamo volentieri un cristianesimo di potenza, di prestanza. Ci riconosciamo di più in un cristianesimo dell’evidenza e del riconoscimento piuttosto che in quello del nascondimento del seme che muore perché vita fiorisca in abbondanza.
Gesù immediatamente non sembra concedersi a quella richiesta perché “il cristiano è costitutivamente, senza visione”. La fede è ciò che caratterizza il discepolo: una promessa sostiene il suo peregrinare incerto. È solo la fede che permette di riconoscere il Figlio di Dio nell’uomo Gesù, il Risorto nel Crocifisso, la gloria nella croce.
Gesù sembra addirittura forzare il discorso introducendo il tema del chicco di grano che deve morire. Dio lo si può vedere solo nell’annientamento, nel silenzio e nel buio di quella esperienza dolorosa nella quale Gesù sta per entrare. Non nel prevaricare né nel rivendicare e tantomeno nel costringere o sopraffare. Un tale spettacolo lo potrà sostenere solo chi ama di un amore infinito. Lì si vede Dio: quando sarà innalzato. Lì, e così lo si testimonia.
E noi ci ritroviamo così ammaestrati da Gesù circa la capacità di divenire consapevoli, come singoli e come comunità di credenti, circa i tempi e i modi in cui si attuerà la nostra consegna, la nostra disponibilità a dare la vita, anche se non senza turbamento e tentazione, proprio come il Figlio.
Sì, perché la via per vedere Dio è quella di diventare seme che porta frutto proprio nella misura in cui accetta di essere sepolto nella terra e morire. Non c’è altra strada se non quella di nascondersi come lui, scendendo e rivivendo la parabola del chicco di grano.
Dio lo si conosce solo nella misura in cui si accetta di condividerne la sorte: Se uno mi vuol servire mi segua, e dove sono io là sarà anche il mio servitore (Gv 12,26). Il luogo di Dio non è mai nel segno della potenza o della forza: è in una mangiatoia, in un chicco di grano che muore, in un pane spezzato, in un catino d’acqua versata, in un perdono condiviso, in un’amicizia perennemente offerta anche al traditore, in una tomba abitata per condividere la sorte dei fratelli.
Si vede Dio solo se si accoglie un’economia del gratuito, del disinteresse, se si arriva a comprendere che il limite, la fragilità, la debolezza e, da ultimo, la morte, sono uno dei linguaggi attraverso i quali la vita si esprime.