Ci sono eventi e situazioni, talvolta, che racchiudono e anticipano il senso di un’intera esistenza. A volte basta un attimo per ricapitolare ogni cosa. Ho avuto la grazia di accompagnare tanti fratelli e sorelle nell’ultimo passaggio da questo mondo al Padre e in quei momenti ti accorgi di come non ci sia nulla di improvvisato e tutto, invece, abbia il sapore della verità di un’esistenza e quindi divenga testamento.
Quella sera, la sera prima di morire, dovette essere proprio così per Gesù.
Il gesto della lavanda dei piedi come quello della cena con i suoi, non era il colpo di teatro prima di uscire dalla scena: parole e gesti di quella sera esprimevano quanto egli aveva vissuto lungo tutto l’arco della sua presenza tra gli uomini. Nel pane e nel vino c’era tutto di lui e tutto veniva consegnato in dono, ogni attimo, ogni istante. Aveva scelto l’ultimo posto e non per strategia, non aveva mai rivendicato prerogative che in qualche modo lo accreditassero se non quella di percorrere la strada di tutti. Noi recitiamo, lui no. Quello che stava per fare non era certo letteratura.
La cena e i gesti di quella sera erano stati a lungo preparati. Oseremmo dire, da sempre. Chinarsi e spezzare sono da sempre i verbi di Dio:
- già quando in seno alla Trinità, il Figlio aveva accettato l’avventura umana rendendosi disponibile tanto all’accoglienza quanto al rifiuto (un Dio che si fa uomo!);
- poi quando aveva scelto la ragazza di Nazaret e ne aveva chiesto il grembo (“da Nazaret può mai venire qualcosa di buono?”, obietterà candidamente Natanaele);
- quando aveva avuto bisogno di un alloggio di fortuna per vedere la luce in quel di Betlemme (“non c’era posto per loro”);
- ancora quando era stato costretto all’esilio come un colpevole per la follia omicida di un re che sentiva suo rivale un bambino;
- poi quando per anni aveva fatto suo il servizio quotidiano e il nascondimento di Nazaret (“scese e stava loro sottomesso”);
- quando ancora aveva girato di villaggio in villaggio come uno che non ha dove posare il capo;
- quando aveva concesso il perdono a chi aveva molto amato;
- quando era andato a cercare e trovare chi era perduto;
- quando aveva condiviso pochi pani e del pesce sfamando la fame di un’intera folla;
- quando era entrato a Gerusalemme a dorso di un asino.
Nulla di improvvisato. Stasera mi ritrovo a pensare alla mia, alla nostra vita di cui non sempre riusciamo a riconoscere il diritto e il rovescio, la trama e l’ordito. Penso a tante pagine che, forse, in modo maldestro vorremmo strappare o comunque rimuovere. Eppure, anche per noi è vero che tutto tesse la trama di una storia il cui compimento è Dio stesso, grazie al quale persino le contraddizioni sono materiale prezioso: tutto verrà ricomposto. Anzi, la pietra che maggiormente scartiamo, proprio quella Dio usa come testata d’angolo. Il tradimento di Giuda come il rinnegamento di Pietro e la fuga di tutti, diventano l’esperienza grazie alla quale tocchiamo con mano fino a che punto siamo stati amati. Tra non molte ore, infatti, canteremo ancora una volta: “Felice colpa!”.
Gv insiste a lungo circa il fatto che sebbene non sia Gesù a determinare quanto di lì a poco accadrà, di fatto non subisce passivamente: il corpo dell’uomo Gesù di cui i suoi accusatori si impossesseranno, era già un corpo dato; il sangue che da lui verrà effuso, era già un sangue versato. Quello che dalla parte degli uomini manifesta la loro volontà peccaminosa, dalla parte di Gesù, invece, esprime l’ostinazione dell’amore. Lo stesso evento può essere letto secondo un duplice versante: di morte, dal versante umano, di vita, dal versante di Dio.
Spogliarsi delle vesti, cingersi di un asciugatoio e inginocchiarsi di fronte a ognuno di quei compagni di avventura di cui conosceva aspettative, speranze e fragilità più o meno celate, era solo l’ennesima occasione offerta loro perché apprendessero ancora una volta in che modo si sta al mondo e in che modo si edificano le relazioni, in che modo si costruisce la comunità cristiana. Le relazioni si edificano dando attenzione alle cose più piccole e usando tenerezza per le più fragili: per questo laverà i piedi dei discepoli, ossia la parte che più dice la vulnerabilità e l’instabilità.
Eppure, anche alla fine, emerge l’incomprensione e non già da parte di uno a caso, no. È l’incomprensione del primo degli apostoli. Insieme all’incomprensione, Pietro non tarda ad esprimere addirittura il disappunto per quel gesto. Quel disappunto di Pietro tradisce tutta la fatica a concepire l’esistenza di una persona dispiegata secondo lo stile del farsi ultimo. Quel disappunto non tarderà a manifestarsi come misconoscimento di un possibile rapporto con quell’uomo Gesù.
“Quello che faccio tu ora non lo capisci”: è vero, Signore, anch’io non capisco e recalcitro con e come Pietro.
In ginocchio: ecco il posto del Signore e del Maestro. In ginocchio davanti a persone che non meritavano quanto egli stava per donare. Dio si china! Ma no, come è possibile? Altra è la strada: se Dio è Dio, non deve agire così. Penso a tutte le situazioni in cui mi verrebbe da suggerirgli percorsi e modalità. E, invece, lui ripete: “lo capirai dopo!”.
In ginocchio: ecco il posto del discepolo. Chinandosi, Dio mi insegna a fare lo stesso. In ginocchio davanti a chi non sempre è in grado di riconoscerci e accoglierci per quello che siamo; in ginocchio davanti a chi vede le cose sempre con una punta di ironia e, talvolta, addirittura di cattiveria.
Aiutami, Signore, ad attendere il tempo in cui anch’io potrò capire che assumere il tuo stile non è mai infruttuoso.
AUTORE: don Antonio SavoneFONTE CANALE YOUTUBETELEGRAM