19a Domenica del Tempo Ordinario
Cuore appassionato e mani operose
La partita della vita si decide nel cuore. Puoi occuparti dei poveri, essere il paladino dell’antimafia, ingaggiare ogni genere di battaglia civile, ma se non metti il cuore in quello che fai, forse potrai aiutare sporadicamente qualcuno, ma non avrai un’esistenza consegnata all’amore e di certo non farai del bene a te stesso. E ciascuno ha una responsabilità anzitutto verso la propria vita, da impostare coerentemente ai valori che accoglie e da orientare al fine ultimo che sceglie di perseguire. Valori e finalità sono quasi sempre ispirati dall’esterno ma richiedono di essere elaborati all’interno, in modo da dare una risposta personale e creativa al desiderio di più vita e più amore che ti accarezza il cuore.
E qui entra in gioco Dio, l’unico che, se ci credi, può darti più vita e più amore, essendo essi doni che coincidono con la sua stessa natura. Nel cuore, dunque, si imbastisce il dialogo con Dio, che diventa per l’uomo strada che porta alla salvezza. Ora, lungi dal cadere nel sentimentalismo o nell’astrattismo, tale dialogo è volto ad una adesione sempre più concreta al progetto del Signore sulla nostra vita, ed implica l’assunzione di alcuni compiti precisi perché, anche se la relazione con Dio è tra due soggetti liberi, Egli è pur sempre Padre e noi siamo figli.
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Si snodano lungo il testo una serie di imperativi, una sorta di educazione del cuore che Dio impartisce affinché l’uomo possa ricevere il suo regno. Anzitutto l’invito a «non temere», ripetuto fin dall’Antico Testamento, che ricorda come la vita ci metta di fronte alla possibilità dell’angoscia e alla tentazione di fermarsi. La libertà del cuore da ogni paura è legata al comando «vendete ciò che possedete e datelo in elemosina», disarmante per la sua semplicità, ma difficile da attuare per il fatto che i beni di cui ci armiamo costituiscono un riempitivo contro il vuoto di senso a volte sperimentato.
’Non temere di vendere e dare’ diventano così le «borse che non invecchiano», atteggiamenti che custodiscono quel «tesoro sicuro», ossia la passione per il regno, che deve dare forma al nostro cuore. Se è vero che «dov’è il vostro tesoro, là sarà anche il vostro cuore», è bene domandarci se il nostro cuore rincorre l’ennesima gratificazione materiale e psicologica o accorre verso anche la più piccola manifestazione del regno che sa riconoscere, perché sente che è lì il suo posto, dove trova rifugio e nutrimento.
E il desiderio di Dio e della sua salvezza si alimenta con la vigilanza operosa: «siate pronti, con le vesti strette ai fianchi», come gli Ebrei la notte di Pasqua, in cui Yhwh passa a liberare il suo popolo. Se l’arrivo del padrone, ossia il momento in cui il Signore ci rivolge l’appello a compiere un cammino più radicale, non è prevedibile, farsi trovare pronti dà alla risposta fedele dell’uomo un esito ancora più sorprendente: sarà Dio a vestire i panni del servo, facendo sperimentare al discepolo la ‘scandalosa’ beatitudine dell’Altissimo che si china ai tuoi piedi.
Cosa ci chiede dunque il Signore? Di svolgere il compito che abbiamo capito essere il nostro nella vita e di farlo sempre, anche perché ci è congeniale e non comporta uno snaturamento di noi stessi. Ciò che sfigura l’identità è invece smettere di agire secondo la nostra vocazione, perché a quel punto saremmo persi, in quanto avremmo perso di vista il volto del Padre.
Un altro imperativo che Gesù aggiunge per motivare l’invito alla vigilanza è «cercate di capire», cui associa la parabola del padrone di casa che non si lascia trovare impreparato quando giunge il ladro. È molto consolante questa indicazione perché, quand’anche la passione e l’impegno per il regno conoscessero in noi un calo di zelo, sarà l’intelligenza, che sa fare memoria della fedeltà di Dio e sa discernere il bene da compiere, a supportare il cammino di fedeltà al progetto iniziale.
E poi l’ultima raccomandazione: Dio ci ha consegnato praticamente tutto, il suo regno, la sua casa, tanto che davvero possiamo ritenerci ‘padroni di casa’. Tuttavia ciò non significa spadroneggiare su tutti né adagiarsi sugli allori pensando di non dovere far nulla perché abbiamo tutto; al contrario, significa avere la grande responsabilità di non sciupare i doni e la fiducia del Signore. Quando il servo vuole farsi padrone, nutrendo se stesso e non i fratelli per i quali è preposto, vuol dire che sta cercando per vie alienanti la felicità: tutto ciò che occorre, invece, è ‘farsi trovare’ da Dio, aderire al suo progetto e trarre gioia dalla consapevolezza che stiamo facendo la sua volontà.
Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si cantano. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno C” disponibile presso:
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