Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si cantano. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno C” disponibile presso:
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8a Domenica del Tempo Ordinario
Puntare al cuore
Alcune frasi di Gesù sono diventate celebri, tanto da configurarsi come universali e imperniare il linguaggio delle culture in cui il vangelo si è diffuso. Esse evidentemente impressionarono i diretti uditori, che le meditarono e le adottarono, ritenendole adatte a descrivere la relazione con se stessi e con gli altri.
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In particolare, il detto della pagliuzza e della trave è la più nota metafora contro l’ipocrisia, capace di suscitare sincera autocritica e feconda revisione di vita. Essa si incentra sull’occhio, da cui scaturisce uno sguardo spesso spietato verso l’altro, che per Gesù non ha ragion d’essere sia perché nulla può giustificare un sentimento malevolo nei confronti del fratello, sia perché tale approccio è viziato da una lettura falsata della realtà. Se io noto la pagliuzza nell’occhio altrui, ciò è provocato dalla trave che è in me, la quale mi toglie una visione d’insieme e fissa il mio sguardo su dettagli insignificanti. È la dinamica del peccato, che accentua un bisogno marginale facendolo apparire come prioritario e induce la persona a volerlo soddisfare a tutti i costi. Chi l’ha detto che per sentirmi più in alto devo usare l’altro come piedistallo? Perché agire d’impeto senza prima aver verificato se un intervento costruisce o demolisce? L’aspetto più difficile da sradicare è la presunzione di ritenersi idonei ad intervenire nella vita del prossimo per stigmatizzare o correggere, mentre si è colpevoli degli stessi difetti o anche di più gravi! La psicologia dice che si condanna nell’altro ciò che non si accetta di se stessi; la vita diventa così una grande menzogna, una recita senza fine, che può perpetuarsi fino alla fine. Quanta gente giunge alla conclusione dei suoi giorni senza mai aver saputo o voluto vedere una verità in fondo elementare, ossia che il problema non stava nell’altro ma dentro di sé! Genitori che non accettano la scelta dei figli di consacrarsi e che interrompono la relazione con loro mutilando in tal modo il proprio cuore; persone vittime dell’invidia che passano la vita a screditare qualcuno senza mai trovare pace; individui che si sentono in diritto di entrare nelle vicende altrui con invadenza offrendo rimedi peggiori della malattia e così via.
Se è vero che ognuno esercita una qualche responsabilità verso il prossimo in qualità di genitore o educatore, chi ha il compito di guidare non può essere cieco, deve avere una visione chiara dei valori che promuovono la vita propria e altrui e che conducono al sommo bene, deve essere «ben preparato». Diventare discepoli di Cristo è il modo per acquisire tale abilità e Gesù è uno dei pochi maestri che non lesina il suo insegnamento, anzi desidera la piena identificazione del seguace con sé, pronto a tirare fuori dal fosso la guida e l’apprendista ciechi che vi siano caduti.
Perché tutta questa premura del Signore per liberarci dall’ipocrisia e dal rischio di disorientare la vita altrui? Il desiderio del Padre è che il figlio «produca un frutto buono», perché sa che l’uomo ha bisogno di generare vita e amore per essere nella gioia e percepire che la propria esistenza resiste alla sfida del tempo che passa e si estende oltre la scena di questo mondo. La bontà del frutto dipende dalla bontà dell’albero come il fare dall’essere, mentre oggi si pone seriamente a tutti i livelli il problema dell’indebolimento dell’identità a motivo di una grave incoerenza tra l’agire e il proprio stato di vita. Se un politico è un disastro nella vita privata, come può occuparsi del bene comune? Due genitori separati come possono trasmettere ai figli l’idea dell’amore indissolubile? Per prevenire o curare la corruzione dell’identità dell’uomo occorre ripartire dal «buon tesoro del suo cuore», puntare al cuore e non all’immagine, educare fin da bambini ad esaminare se stessi e dare un nome ai pensieri nascosti, a saperne immaginare i possibili sviluppi e le ricadute sugli altri. Se necessario, occorre sradicare e abbattere l’albero che noi siamo per piantarlo di nuovo, cambiare terreno e adottare qualsiasi altro provvedimento, ma mai lasciare ‘impunito’ il male che vuole annidarsi dentro.
Una persona è matura e produce frutti buoni non se ha superato tutte le imperfezioni e miserie, ma se sa leggere i movimenti del proprio cuore e chiedere aiuto quando non riesce da sola a correggersi. L’umiltà è l’antidoto contro l’ipocrisia e la sterilità; la parola dell’umile muove i cuori perché non sovrabbonda di verbosità ma è generata nel silenzio e invita al primato dell’interiorità e dell’essere sull’esteriorità e il fare.
don Antonino Sgrò