Nostro Signore Gesù Cristo Re dell’universo
Il dolore conduce al Paradiso
Ciascuno di noi vorrebbe ‘salvarsi’, scampare il pericolo, sentirsi al sicuro. Siamo consapevoli che spesso questo non dipende da noi, ma sapere che qualcuno lo sta facendo a nostro vantaggio ed essere persuasi che un intervento di tal genere produrrà un effetto benefico, rende sopportabile il dramma di un momento di prova. Quando invece non si intravedono soluzioni soddisfacenti, ci si sente persi, abbandonati anche da Dio.
Questa comune percezione vale per sé ma si tende a proiettarla sugli altri, ed è quanto fanno i capi del popolo, i soldati e uno dei malfattori nei confronti di Gesù. Perché «il Cristo di Dio» non pone in essere la cosa più ovvia? Per quale assurdo motivo non salva se stesso e ciascuno di noi da una sorte atroce? E per di più è innocente! È proprio questo lo scandalo di sempre, l’imperversare della sofferenza innocente che stride con l’idea di un Dio buono e dalla parte dei giusti. Eppure Colui che patisce rimane «l’eletto»; la sua e nostra morte non cancella l’elezione che il Padre conferisce a ciascun figlio, qualunque sia la risposta a tale predilezione divina, l’amore perfetto di Gesù o il peccato degli uomini. La sfida più alta per la nostra fede è infatti credere che il Dio dell’alleanza è ancora il Dio con noi quando la terra promessa è diventata un deserto per il corpo e l’anima.
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«Il popolo stava a vedere»: è dentro questo spazio di contemplazione che si decide se vivere da arrabbiati o da affidati, se fare della propria esistenza un lamento, più o meno giustificato ma sterile, o un cammino di ricerca del messaggio nascosto dentro ogni sofferenza. Se non si guarda a fondo il dolore non si potranno mai scorgere in esso i segni della presenza di Dio, che ha scelto di abitare il dolore e ne ha fatto una delle esperienze umane che più di altre permettono di incontrare il divino. Tuttavia molti cercano evasioni, scappatoie, non hanno la pazienza di aspettare che la sofferenza dispieghi tutta la bellezza di consolazione e di verità di cui è portatrice e tendono a prendersi con smania tutto ciò che possono prima che sia troppo tardi. Il risultato di tale fuga dalla realtà è purtroppo aggiungere frustrazione a frustrazione, perché non si è fatta l’unica cosa necessaria, abbandonarsi all’amore di Dio. Gesù invece nel suo cammino verso Gerusalemme non ha mai smesso di guardare e toccare il dolore e adesso è pronto a viverlo. Spesso, quando stiamo male, diciamo: ‘guardiamo a chi sta peggio’; ogni patimento altrui che scegliamo di condividere nella preghiera e nel servizio diventa una finestra che apriamo sulla nostra anima, una scuola di fede e di carità che ci abiliterà un giorno a diventare ‘guaritori feriti’, gente che mentre porta nella propria carne i segni della morte, canta l’attesa di una risurrezione in cui crede fermamente. E mentre si entra più profondamente in questo mistero pasquale vivente, ci si accorge che il poter testimoniare la fiducia nel Dio che fascia le ferite è già esperienza di vittoria sulla morte, splendore di una qualità di vita più alta. La vera sfida, tutta umana ma sostenuta dalla grazia, è accettare in certi dolori un modo di vivere nuovo e inaspettato.
Pensiamo a chi si trova ridotto improvvisamente in carrozzina o ai casi più gravi di malati di SLA, il cui unico contatto col mondo è il movimento degli occhi. Manca il fiato anche solo a menzionare certe malattie, eppure esistono! E se esistono sono vita e amore! Non crederei mai a un Dio che nega la possibilità di essere felice al più martoriato dei suoi figli! Signore, facci capire come si può essere felici quando il desiderio di morire potrebbe superare quello di vivere!
«I soldati lo deridevano… uno dei malfattori appesi alla croce lo insultava»: derisione e insulto sono gli ultimi attentati alla felicità di un uomo che soffre, perché la cattiveria gratuita di chi non capisce il tuo dolore vorrebbe farti credere che Dio si è dimenticato di te. il ‘buon ladrone’ chiede invece di essere ricordato: è l’estremo o forse l’unico tentativo di uno che ha sbagliato tanto nella vita di non vanificare il poco di bene che ha fatto, di dare un senso alla sofferenza. Chiama «Gesù» il suo compagno, fratello nel dolore, come l’amico che si rivolge all’amico. Noi vogliamo che almeno un amico non si dimentichi di noi, che sappia che quel dolore ci costa e ha un valore. E Gesù non si dimentica, parla con autorità, «in verità», l’unica cosa che serve nella sofferenza, e annuncia il dono più grande che l’uomo avrebbe mai potuto aspettarsi: il dolore conduce al Paradiso. In questo è Re.
Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si cantano. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno C” disponibile presso:
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