27a Domenica del Tempo Ordinario
La potenza di un granello di fede
Gesù ha fatto ai discepoli delle richieste molto impegnative. Nelle ultime due Domeniche, con le parabole dell’amministratore infedele e del ricco epulone, ha messo in guardia dal pericolo mortale delle ricchezze, che conducono in perdizione chi le detiene se non vengono messe a servizio dei poveri.
Nel testo immediatamente precedente al nostro, il Maestro ha anche sottolineato la necessità di perdonare tutti incondizionatamente. Tali richieste sono ardue da adempiere perché spesso la nostra inclinazione si muove in tutt’altra direzione. È qui che nasce la fede: dalla percezione della propria incapacità.
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Comprendiamo dunque il motivo per cui gli apostoli chiedono: «Accresci in noi la fede!». La risposta di Gesù amplia l’orizzonte entro cui noi ci muoviamo, dominato o dalla presunzione di essere giusti o dalla disistima di sé che blocca qualsiasi iniziativa. Egli, con l’immagine del gelso dalle radici robuste e difficili da sradicare, che con una fede pari a un granello di senape può invece essere piantato nel mare, sta dichiarando solennemente la potenza della fede che spinge il credente oltre se stesso.
Non è necessario disporre di un bagaglio di conoscenze teologiche che risolva tutti i dubbi su Dio e sulla vita, né di una forza d’animo che renda capaci di compiere scelte eroiche, ma il cristiano che si sforza ogni giorno di tradurre in comportamenti le intuizioni percepite nella preghiera come volontà del Signore, sta già operando miracoli. La sproporzione tra la piccolezza del seme e la grandezza del risultato prodotto, infatti, indica che le cose più belle che possiamo fare sono quelle ordinarie, vissute però con la carità di chi è mosso dallo Spirito e la letizia che nasce dalla consapevolezza di collaborare alla costruzione del regno di Dio.
L’immagine paradossale usata da Gesù serve anche a ricordarci che c’è una piccola via da percorrere persino nelle situazioni che sembrano fuori dalla nostra portata. Essa infatti non è dissimile da molte circostanze che noi, esseri umani, ci troviamo a vivere. Pensiamo, ad esempio, a due genitori che vedono morire il proprio figlio. È qualcosa di innaturale, che ti strappa dalla certezza di un terreno ricco di vita e ti getta dentro l’acqua salata, dove non potrai resistere a lungo. Pensiamo a un padre di famiglia che ha perso il lavoro, alle persone vittime di violenza e di ingiustizia.
Cosa c’è di ‘naturale’ in tutto ciò? Cosa c’è di congeniale per la dignità di un essere umano in tanta sofferenza? Eppure può accadere che un albero si muova e vada a piantarsi nella salinità letale del mare, che dei genitori trovino in Dio la forza di ricominciare e di sentire che quell’assenza è abitata da una presenza d’Amore più grande, che molti riescano a combattere creativamente contro la mancanza di lavoro e che chi è vittima di soprusi trovi il coraggio di andare avanti finché sia fatta giustizia. Da cosa dipende tutto questo? Gesù dice che tutto ciò è questione di fede! Fede minuscola e invisibile, ma che possiede tutta la potenza, la creatività, la vita di Dio. Il problema è che spesso trascuriamo questo seme, ci dimentichiamo che è piantato dentro di noi e che basterebbe dire: ‘Sì, mi fido di te e basta’.
Nell’immagine successiva Gesù parla dello stile del servizio, frutto della fede. L’uomo di fede si considera servo, non del sistema o di un padrone spietato, ma di un Dio che si è fatto Servo. Il discepolo non compie un servizio alienante ma sempre ‘personale’, che lo rende cercatore prima di volti e poi di piedi, che crea relazioni improntate sull’umiltà, le quali nel loro dispiegarsi con amore rendono sempre presente il volto di Cristo.
Così concepito, il servizio che nasce dalla fede è gioioso e fecondo, non inciampa nella sterile abitudinarietà che rischia di traviarlo in esercizio di potere mascherato di generosità, e soprattutto non pretende alcuna ricompensa, fosse anche la soddisfazione personale che a volte ci fa gongolare. Chi lavora nella Chiesa, accettando di volta in volta un servizio diverso, e anche passando da uno più visibile a uno nascosto, si considera ‘servo inutile’ perché non cerca mai il proprio utile.
In verità non ha bisogno di cercarlo, perché è talmente immerso nella relazione con Cristo da trovare senso e pienezza nel fare propria la missione che Egli, il capo, ha affidato alle singole membra. E così le membra, anche se differiscono le une dalle altre e dal capo, costituiscono l’unico corpo ‘servente’. È tale dinamismo di fede che ci fa vivere anche dove sarebbe impossibile e servire persino i nemici.
Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si cantano. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno C” disponibile presso:
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