20a Domenica del Tempo Ordinario
Il fuoco d’amore divide per unificare
Gesù sta salendo a Gerusalemme. È il viaggio della vita, che realizza l’opera di salvezza per la quale è venuto nel mondo. Possiamo immaginare la passione con cui Egli affronta questo cammino; si tratta di un sentimento che deve averlo coinvolto completamente, se le immagini che Cristo usa per descriverlo sono il fuoco e l’acqua, elementi che consumano e travolgono qualunque cosa incontrino sulla loro strada. Il fuoco richiama subito la profezia del Precursore, che aveva annunciato la venuta del Messia e il suo battesimo in Spirito santo e fuoco, come pure il giudizio punitivo di Dio con fuoco inestinguibile.
Qui non è evocato il castigo, che in Luca lascia il campo alla prevalenza della misericordia, ma l’amore che deve divampare sulla terra per condurre tutti gli uomini alla salvezza. «Quanto vorrei che fosse già acceso» suona come un appello che Cristo rivolge a ciascuno affinché contribuisca a ravvivare tale fuoco, che stenta spesso a propagarsi a causa della tiepidezza dei credenti. Gesù ha fatto e farà la sua parte a Gerusalemme… e noi? Se la fiamma non è creazione dell’uomo, che non si dà lo Spirito ma lo riceve e si dispone alla sua azione, comprendiamo come il nostro compito non sia quello di inventare bensì di favorire l’instaurazione del regno di Dio.
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Fin qui tutto chiaro, senza dubbio una bella teologia. Poi, mentre stai scrivendo, ti giunge la notizia di Antonio, quarantaduenne pieno di vita, che hai conosciuto nella tua infanzia e che rivedevi ogni estate, morto improvvisamente nella notte. Era tornato dall’estero per la festa patronale e rimane esanime alla vigilia dell’Assunta, cui era tanto devoto insieme alla sua famiglia. Dove va a finire la festa ma, ancora di più, tutta la teologia? «Ho un battesimo nel quale sarò battezzato» forse può rendere l’idea di ciò che i familiari provano: essere immersi nelle acque distruttive del diluvio che troppo spesso continua a scatenarsi, stavolta su vite innocenti.
Eppure Dio aveva giurato che il diluvio non ci sarebbe più stato; eppure la famiglia in quei momenti concitati ha chiesto a Maria Assunta la grazia di strapparlo dalla morte! Anche qui le disquisizioni teologiche sull’origine del male e la sua compatibilità con la bontà di Dio non consolano il cuore di chi soffre la perdita. Cosa fare allora? Protesta rabbiosa o esaltazione del presente? Aiuterebbe lamentarsi di Dio o, siccome la vita è un soffio, cominciare a prendere tutto quello che può darti piacere, senza pensare se è giusto o sbagliato? Nessuna delle due soluzioni risolverebbe il problema; per il credente non rimane che seguire l’itinerario di Gesù, il quale ci rivela la sua tensione di uomo «finché non sia compiuto» il progetto del Padre. È soltanto alla fine che vedremo, capiremo, accetteremo.
Nel frattempo, il cammino del discepolo si presenta come esigente e liberante insieme. È esigente accettare la divisione che il vangelo per sua natura provoca, la presa di distanza da cose e persone che possono ostacolare la sequela di Cristo. Una divisione da situazioni esterne, che è specchio di quella che si consuma dentro di noi tutte le volte che le richieste che la Parola pone contraddicono i bisogni più bassi. Occorre permettere alla forza della Parola di dirci la verità, di ammetterla poi a noi stessi, di attivare infine le strategie che ci consentono di farla emergere in tutta la sua bellezza: solo questo dà la vera libertà!
A volte può sembrare che il cambiamento che il vangelo ci chiede sia impossibile da realizzare perché assai difficile; in realtà si tratta di paura di cominciare o di sfiducia che troppo grande sia la colpa per trovare misericordia. È la tentazione di Caino, superabile da chi si lascia raggiungere da un amore che divide per unificare nella verità. Gli uni contro gli altri allora, non alla maniera mondana per distruggerci, ma alla maniera evangelica perché il male non distrugga il bene, e con l’ardente desiderio che presto dallo scontro si accenda una scintilla anche nell’altro e il fuoco trasformi per fondere nello stesso amore.
E mi auguro che Antonio sia, per chi rimane, il segno che gli affetti tragicamente divisi su questa terra saranno misteriosamente ricomposti dalla forza dell’amore divino, che non toglie la luce dei nostri occhi ma ci vela per un attimo il viso per portarci verso un’altra luce, come facevamo da bambini, quando coprivamo con le mani gli occhi di un altro per suscitare la sorpresa di qualcosa di bello che volevamo mostrargli. Attendiamo con la stessa passione di Gesù la luce che ci rivelerà il volto del Padre.
Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si cantano. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno C” disponibile presso:
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