Testo tratto (per gentile concessione dell’autore) dal libro “Parole che si cantano. Commenti ai Vangeli della Domeniche dell’Anno C” disponibile presso:
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6a Domenica del Tempo Ordinario
È la relazione con Cristo che rende beati
Gesù, sceso in un luogo pianeggiante, alza gli occhi verso i discepoli. In questo duplice movimento cogliamo la divina pedagogia del Maestro, che sceglie di abbassarsi per rendere accessibile a noi la suprema legge dell’amore e nel contempo ci racchiude nel medesimo sguardo che Egli eleva al Padre, intercedendo per noi.
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Le beatitudini restano tuttavia una pagina difficile: perché dovrei sentirmi beato se sono povero, se ho fame, se sto piangendo, se tutti mi odiano e mi insultano? È proprio il contrario di quello che voglio! E, come me, penso che tutti desiderano una vita bella, serena e non complicata. Non ci piace non avere certezze; il solo pensiero di vivere una qualche povertà ci fa sentire persi, perennemente in ansia per il futuro. Non ci piace neanche avvertire i morsi della fame; molto meglio poter saziare subito ogni nostro bisogno. E figuriamoci se vogliamo essere perseguitati… Questo non ci deve mai accadere, non riusciremmo a vivere felici se non ricevessimo le attenzioni e le dimostrazioni di affetto da parte degli altri.
Eppure Gesù chiama beati proprio coloro che vivono tali situazioni. Egli, d’altra parte, sembra rivolgere delle invettive contro coloro che gongolano nel benessere, anche se, nell’ottica di misericordia che fa da sfondo a tutta la sua predicazione, possiamo certamente definire i ‘guai’ come dei rimedi che Dio usa contro il male, dei rimproveri che mi permettono di capire dove mi sto incaponendo. Cristo non sta demonizzando la ricchezza, la gioia, il successo, ma sta dicendo che non sono quelle le cose che contano, in quanto oggi ci sono e domani forse no. Mi dice che è sbagliato passare la vita ad accumulare ricchezze e a soddisfare ogni piacere, pensando che basti questo a consolarmi. È sbagliato voler evitare a tutti i costi il dolore, il sacrificio e affannarsi per fare in modo che nessuno possa criticarci, finendo per non agire o per indossare mille maschere pur di accattivarci il consenso della gente. Non è questa la vita!
C’è una felicità, di cui Gesù ci parla, che non dipende da ciò che possediamo o da ciò che gli altri pensano di noi, una felicità che resiste persino alle incertezze, alla precarietà di questo mondo, alle lacrime di dolore, una felicità che nessuno potrà mai rubarci perché si fonda sulla relazione vitale con Cristo. È in Lui e con Lui che siamo beati! Infatti Egli dice: «Beati voi… a causa del Figlio dell’uomo». Voi chi? Sta parlando ai discepoli, a coloro che hanno scelto di seguirlo, che hanno lasciato tutto per dare ascolto alla sua Parola. Allora mi rendo conto che le beatitudini acquistano senso dalla relazione su cui si fondano.
Solo Gesù dà senso a tutto! Lui, che è così profondamente reale da consegnarci la più grande verità di cui il cuore ha bisogno, ossia che per Dio la nostra debolezza non è un problema; Lui, che non elimina magicamente la sofferenza e le difficoltà, ma ci dice che siamo beati perché esse appartengono solo a questa vita e, addirittura, che già da questa vita possiamo entrare nella realtà del suo regno, se ci facciamo poveri, abbandonandoci alla sua volontà. Dunque il punto non è tanto come faccio a ridere nel pianto, a sentirmi beato se non vengo calcolato dagli altri, ma come faccio a non perdere la relazione con Cristo.
«Allo stesso modo infatti agivano i loro padri con i (falsi) profeti». Alla fine delle quattro beatitudini e dei quattro guai, Gesù indica la persecuzione e l’adulazione come criterio di riconoscimento rispettivamente del vero e falso profeta nella storia di Israele. È come se esistesse una costante nella storia, da cui dovremmo trarre la capacità di discernere nell’oggi il valore dei comportamenti altrui nei nostri confronti. Si tratta di due atteggiamenti opposti, certamente radicali, che tuttavia – sembra dire il Maestro – non devono condizionare la valutazione della qualità della nostra stessa vita. Ancora una volta, essa viene fatta dipendere dall’accoglienza riservata a Cristo.
Eppure la memoria di questa solenne dichiarazione di Gesù non sempre viene custodita dal credente odierno, che è spesso smarrito perché incapace di innestarsi in una profezia che lo conduca a interpretare il suo presente alla luce della Parola di Dio. Essere pertanto analfabeti del presente rende impossibile scrivere il futuro in una chiave altrettanto profetica, a meno che non si torni a vivere in totale affidamento alla Parola, secondo la consegna che Paolo ci ha lasciato: «Vi affido a Dio e alla parola della sua grazia, che ha la potenza di edificare e di concedere l’eredità» (At 20,32).
don Antonino Sgrò