don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 7 Settembre 2021

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PRIMIZIE DELLA NUOVA CREAZIONE INVIATI A LASCIARSI TOCCARE DA TUTTI PERCHE’ SIANO RAGGIUNTI DALLA FORZA SANANTE DI CRISTO


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

“E fu sera e fu mattina”: così è scandito il racconto della Creazione. Allo stesso modo è scandita la nuova creazione: “Gesù se ne andò sulla montagna a pregare e passò la notte in orazione. Quando fu giorno, chiamò a sé i suoi discepoli e ne scelse dodici, ai quali diede il nome di apostoli”. Gesù sale sulla montagna, immagine del Cielo dell’intimità con suo Padre, e come al tempo della creazione, è accanto a Lui per creare la cosa nuova profetizzata dai profeti, il resto santo che annuncerà e testimonierà al mondo la vita nuova, il Paradiso finalmente dischiuso dinanzi a ogni uomo. “Tutto è stato creato per mezzo di Lui”, e tutto è ricreato grazie al suo mistero pasquale; dal cuore della sua preghiera, infatti, nascono i dodici apostoli.

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Gesù si è immerso nella notte, profezia della notte del Getsemani, del buio calato sulla Croce e dell’oscurità del sepolcro, il grembo muto di morte dove è germinata la vita che non muore. Non sappiamo come Gesù abbia pregato, non conosciamo che lotta abbia sostenuto, ma abbiamo però il frutto di quella notte: “Simone, che chiamò anche Pietro, Andrea suo fratello, Giacomo, Giovanni, Filippo, Bartolomeo, Matteo, Tommaso, Giacomo d’Alfeo, Simone soprannominato Zelota, Giuda di Giacomo e Giuda Iscariota, che fu il traditore”, tu ed io. La Chiesa è il frutto primaticcio della Pasqua, dato al mondo perché ne gusti il sapore d’eternità. Notte e preghiera per chiamarci, apostoli scelti tra i suoi discepoli. Gesù ha pronunciato il nostro nome per farci suoi discepoli, ovvero coloro che sono dentro il suo “sé”, nell’intimo del suo cuore. E’ questa la missione alla quale siamo chiamati.

Essere una cosa con Lui, la vita consumata nella sua preghiera. E’ l’unica cosa necessaria e buona, che non ci verrà tolta. Per questo Gesù sceglie gli apostoli sul “monte” dove sono sbocciate le beatitudini ed era discesa la Torah, gioia eterna del Popolo di Israele. Sul monte, come un anticipo della Trasfigurazione, essi sono raggiunti e “chiamati a sé dal Signore”. E’ l’intimità così simile a quella di una madre che porta in grembo suo figlio: senza questo essere “chiamati” e questo “andare” al più intimo “sé stesso” di Gesù non esiste vocazione. Si può diventare preti, si possono fare molte cose, ma la vita non sarà mai una sovrabbondanza di gioia e di amore; tutto sarà esigenza e sforzo, moralismo e giudizio, e mai un sorriso a illuminare il viso. La gente, infatti, accorre da ogni dove per ascoltare Lui, non noi; neanche il più brillante dei predicatori.

E’ Lui che i malati e i peccatori schiavi del demonio vogliono toccare, non noi; hanno fame del suo corpo e del suo sangue, hanno bisogno dei sacramenti, non dei nostri gesti. Per questo la nostra vita è restare crocifissi con Lui, perché parli in noi e agisca attraverso di noi. Questo è il servizio di un apostolo, che significa “ambasciatore”; se non è strettamente legato a colui che lo invia rischia di annunciare le sue idee, e trasmettere i suoi criteri. Invece Gesù ci ha scelti dal mondo come primizie, ci sta formando nella Chiesa, per essere i suoi “alter christus” per ogni uomo. Come San Francesco, raggiunto e trafitto dall’amore di Gesù, inchiodato alla sua stessa Croce. Quale più autentica e credibile immagine del Signore?

Sulla “montagna” del Calvario” Gesù moriva e discendeva nel buio di ogni anima, anche in quella di Francesco. A Perugia prima, a Spoleto poi, sino a quella della Verna, le notti hanno avvolto la sua vita, ed erano gli abbracci innamorati del suo Signore. In quelle notti Dio ha dipinto Francesco, un’icona fedele e somigliante del suo Figlio: carne, ossa, parole e stigmate per dargli vita in quella generazione. Allo stesso modo, in ogni notte che ci ha rapiti, come questa che ci avvolge in questo tempo, è stata ed è la mano del Padre a tracciare sicuri i tratti di Gesù in noi. Ogni vocazione, infatti, nasce nella notte della Pasqua. Essa appare oscura, e lo è, eccome se lo è: quando ci scappa il presente dalle mani, senza capire nulla di quello che ci sta accadendo, e nessun futuro ci è dato di pensare; quando una malattia spezza i sogni e le speranze; o le altri notti che hanno inghiottito l’infanzia e la giovinezza, il divorzio dei genitori, la morte del padre, l’amico che ha tradito, la solitudine a scuola, il fidanzato che è sparito all’improvviso, la povertà e le umiliazioni.

O quando il buio ci ha nascosto agli altri, per via di un fisico al di sotto degli standard, o di un pessimo carattere, o perché stranieri, goffi e balbettanti. Era il Signore che imprimeva in noi le sue stigmate. In ogni notte contro la quale abbiamo lottato, che non abbiamo accettato, e per la quale abbiamo sofferto; in ogni notte che abbiamo vissuto sommersi nella solitudine, vi era Gesù, accanto a noi, e pregava per noi. Lì dove tutto moriva Lui raccoglieva ogni frammento per farne un quadro meraviglioso. Dalla notte che il demonio ci ha fatto credere come il capolinea di ogni speranza, una galassia lontana dove ci aveva espulso la storia, nasce il “giorno” della nostra chiamata. Sì, perché ogni chiamata è il compimento del Mistero Pasquale di Gesù, della notte delle notti che si è fatta giorno senza tramonto. Il Signore ci chiama ogni giorno sulla “montagna” per essere con Lui l’agnello scelto per essere immolato. E di qui, ancora con Lui, “scendere” per scioglierci come sale nel mondo, perché ogni uomo possa risuscitare.

Salire sulla Croce e scendere nell’umiltà, non c’è altro cammino per un apostolo. La nostra vocazione nasce in questo mistero di morte e risurrezione, per annunciare e testimoniare che ogni vita ha senso solo in esso: la notte nella quale sono stati amati e scelti gli apostoli è la notte di Cristo che ama sino alla fine. Non si tratta di sentire qualcosa, o di scegliere noi il Signore, ma di lasciarsi scegliere, raggiungere e accogliere dal “giorno” di Gesù. Non esiste chiamata autentica se non ha origine e non è ancorata nel perdono, nell’esperienza indubitabile di un amore così forte da vincere le tenebre della disperazione e del dubbio. Per questo ogni vocazione è la carne che veste la gratitudine, la storia che si fa didascalia della gioia. Niente di più lontano dal volontarismo pelagiano e narcisistico che si trasforma in clericalismo.

L’essere chiamato ogni giorno per nome e inviato in missione nel matrimonio, nel sacerdozio o nella vita consacrata, è purissima Grazia; e la gioia in ogni situazione, quella autentica che trasuda anche dalle lacrime di dolore, è la prova che non si sta seguendo un’ideologia o un sogno, ma una chiamata cruda e santa. Gesù ci chiama anche oggi, sapendo che portiamo nel cuore il veleno di Giuda e quello di Pietro. Lui ci conosce e ci ama, e ci chiama deboli e fragili per una missione speciale: essere la sua gioia in mezzo al dolore, il suo “giorno” in mezzo alla notte del mondo. Per questo, anche oggi, e domani, e per tutta la nostra vita, “scenderà con noi” verso i “luoghi pianeggianti” dove giacciono le “moltitudini” di frustrati e falliti che non possono salire sul monte della Croce perché incapaci di soffrire e amare.

“Tutta la folla”, ma proprio tutti, anche i peggiori, hanno bisogno di “toccare” Gesù; nessuno tra i falsi profeti ha la sua “forza” per liberarli; non hanno trovato nel mondo chi li possa “guarire”. Ma Gesù e la sua Chiesa, tu ed io nella nostra famiglia, con i colleghi e i parenti, abbiamo una “forza” che “guarisce tutti”, anche il più corrotto. Lo ha fatto quel giorno in quella pianura, lo farà oggi, e guarirà “anche quelli che sono tormentati da spiriti immondi” e lo rifiutano.