don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 5 Luglio 2021

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SOLO PROSTRATI PER SFIORARE IL LEMBO DEL SUO MANTELLO CI SENTIREMO PRESI PER MANO E RISUSCITATI DA GESU’ 


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Gesù aveva appena annunciato che è impossibile versare vino nuovo in otri vecchi: il cristianesimo è una novità assoluta, è libertà e pace, gioia e pienezza di vita. Gesù non è venuto a somministrare aspirine e vitamine; è venuto a vincere la morte e il peccato, per donare agli uomini la sua stessa vita. E’ questa la novità alla quale ci chiama anche oggi, sperimentare e condividere il suo potere. Esso è al di qua del limite che, comunque, il male ha. Cristo è salito sulla croce ed è disceso nella tomba dove si era accumulato tutto il male dall’inizio del mondo alla sua fine. Forse non riusciamo a quantificarlo. Ebbene, tutti i peccati che il potere del demonio è stato capace di far compiere a ogni uomo della storia è giunto sul corpo di Gesù. Nella Passione di Cristo c’erano i tuoi e miei peccati. E hanno avuto il potere di ucciderlo. Di quel potere non ha avuto ragione la spada di Pietro; non hanno potuto nulla contro il male le manifestazioni, le rivoluzioni, gli scioperi, le democrazie, le battaglie culturali; rarissimamente qualcosa di questo è riuscito ad arginarlo e dare agli uomini condizioni leggermente più dignitose. Ma pensiamoci un momento: è vero che gli operai hanno visto riconoscersi diritti fondamentali; è vero che in molti posti del mondo non esiste più l’analfabetismo; è vero che la qualità della vita è sensibilmente migliorata. Ma il male?

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E’ ancora in mezzo a noi, dentro di noi, più vivo che mai! Ha escogitato nuove forme, sempre al passo con i tempi. Quando, nella storia, si è pensato a far sposare due omosessuali e dare loro dei figli in adozione? Mai! E non si tratta di condannare le persone che, ingannate, compiono questi abomini. Si tratta di guardare in faccia il male che taglia le teste di chi non è sottomesso alla stessa religione. Si tratta di pensare ai bambini che nascono dagli uteri in affitto, e al male nel quale sono stati gestati, vedranno il mondo e vi cresceranno. Chi li “toccherà” e li “salverà”? Chi avrà cura della loro anima così violentemente ferita dall’egoismo? Perché è proprio vero che “il mondo con tutta la sua sapienza non ha conosciuto Dio”! Il culmine dell’emancipazione coincide, sempre, con lo zenit della malvagità. E quel bimbo siamo tutti noi, feriti dal male, dal peccato. Questi bimbi adagiati nelle braccia di due papà o due mamme, quanto di meno naturale vi sia, è ogni uomo che, per causa del demonio, è stato “concepito nel peccato”, “nato” nella concupiscenza, cresciuto nell’alienazione; ogni uomo costretto a vivere lontano dal paradiso, stretto da braccia che lo stritolano nell’affetto effimero e pronto a deludere dell’egoismo; ogni uomo schiavo del demonio che lo educa nella menzogna spingendolo a vivere contro la propria natura. Immagine e somiglianza di Dio eravamo, figli del demonio siamo diventati. 

Come la figlia di “uno dei capi”, come l’emorroissa, due donne, e non è un caso. Come Eva, abbordate e sedotte dal principe della morte, sono immagine di nostra madre, che ci ha concepito nel peccato. Una “è morta proprio ora”, come la tua anima forse, come la relazione con tuo padre o con tuo cugino; l’altra erano “dodici anni che soffriva d’emorragia”, dodici anni, l’età nella quale, secondo l’halakhah (la via ebraica alla vita, la tradizione normativa) una ragazza raggiungeva la maturità legale, ed era tenuta ad osservare la Torah e i precetti della tradizione. Questa donna è, dunque, immagine di Israele, la sposa di Yahwè, alla quale si era legato con l’Alleanza e il dono della Torah. Ma, giunta all’età matura, invece di sottoporsi al “giogo” della Legge, si era prostituita con gli idoli, e ora stava perdendo sangue, che è simbolo della vita. Matura, come la società civile e post-moderna nella quale viviamo, e moribonda. Matura come crediamo di essere tu ed io, ma ci ritroviamo senza forze, spossati dalla vita che abbiamo perduto dietro agli idoli. Due donne nelle quali il male si è schiantato con furia, uccidendole. E nessuno ha potuto nulla, lo dice esplicitamente il parallelo di Luca. C’era, dunque, anche quel loro male a colpire Gesù; anche la loro morte ha gustato nel sepolcro. Eccolo il male della storia, il tuo e il mio, aggredire l’uomo, e gettarlo nella tomba della disperazione.

Ma quel giorno, sul Golgota, non è bastato il potere del demonio! No, proprio quando è esploso nel massimo del suo furore, al limite delle sue possibilità, quando ha creduto di uccidere il Figlio di Dio si è scontrato con un potere più forte. E ha dovuto inchinarsi, ed è stato annientato. E il brano di oggi è annuncio e profezia di questo mistero che ha “salvato” ogni uomo. Ma che cosa è successo? Come è stato che queste due donne sono state “salvate”? E’ accaduta la fede, quella che, dice Gesù, “vince il mondo”, perché con essa ci si abbandona a “Colui che ha vinto il mondo”. E’ la fede che ha ragione del male! E’ la fede che disinnesca la bomba nella quale deflagra il potere di Cristo! Una fede piccola come un granello di senapa, ma che contiene in germe un albero grandissimo. La fede di quel “capo” che si “prostra” dinanzi a Gesù: è l’immagine dei poteri umani che si inchinano al potere di Cristo. Senza questa kenosis, questo svuotamento non c’è fede! Non si può versare il vino nuovo della vita divina nell’otre vecchio dell’uomo della carne che presume delle sue forze; non si può cucire una toppa di tessuto grezzo su un vestito vecchio, cioè la fede non serve per rattoppare l’abito superbo che indossa l’uomo vecchio. Non si possono servire due padroni, e quel “capo” ha riconosciuto un altro “capo”, più potente di lui, e, prostrandosi, ha scelto di servirlo. 

Per questo Gesù, ed è l’unico testo in cui appare, “si alza e segue” quel “capo”. Gesù, nel pieno del suo potere di “risuscitato”, si fa “discepolo” di quell’uomo. Sì, Gesù è “chiamato” dal dolore di ogni uomo schiavo e vittima del male. E’ la sua “vocazione”… E si fa “discepolo della fede” di chi ne riconosce il potere. Quel “capo” è così anche immagine dei pastori, dei catechisti, dei “padri” appunto, che intercedono con fede presso Cristo perché coloro ai quali sono inviati possano “rivivere”. Per questo Gesù si mette in cammino “con i discepoli” per raggiungere la casa dove giace morta la ragazza. La Chiesa si “prostra” dinanzi a Gesù e non ai poteri e ai ricorsi mondani; e lo “segue” per “seguire” ogni grido di dolore, ogni sofferenza, e scendere con Lui nei sepolcri dell’umanità. E dove giunge Cristo con la sua Chiesa cambia tutto, è un’esplosione di vita nella morte: Egli, infatti, fa “ritirare”, come il vento e le onde delle tempeste, “i flautisti e la gente in agitazione”. Era la liturgia funebre comune, perché in Israele “perfino il più povero non avrà meno di due flauti per il funerale di sua moglie”. Era morta davvero quella ragazza, ma Gesù inaugura una liturgia nuova, nella quale al posto dei flautisti e della gente che piange con i parenti, arrivano i suoi discepoli come un corteo trionfale: con Lui arriva la vita, e dove c’è la Chiesa non c’è mai la morte! Basta che un prete, un cristiano balbetti un briciolo di fede che il Cielo si apre sulla terra! Un abbandono, nella certezza profonda d’essere ascoltati.

Perché così si accende e comincia la fede, con lo sguardo di Gesù nel nostro sguardo, e la sua Parola che, mentre scende in noi, si attacca alle pareti del cuore, il cuore biblico, laddove decidiamo che sì, è vero quello che ci dice: “La fanciulla non è morta. Dorme”. La fede che nasce in questo incontro al limite della disperazione, è poi destinata a crescere, sino a che le Parole di Gesù piantate nel cuore diventino le nostre, e schiudano i nostri occhi alla loro luce: “dorme, non è morta” la speranza; dorme il tuo matrimonio, dorme tuo figlio, dorme la relazione con quel parente… Tutti ti dicono che è morta, solo Gesù afferma il contrario. Il mondo che “deride” Cristo, come ti deridono sul lavoro e a scuola, non può nulla contro il potere del male, la Chiesa sì, tu ed io sì! La fede gestata nella comunità cristiana e divenuta adulta ci dona la stessa certezza di Cristo, che sa difendersi di fronte al pensiero del mondo. Proprio per essere discesi nel sepolcro dell’impotenza e avere sperimentato il potere di Cristo, potremo annunciarlo con parresia. Proprio per esserci umiliati scendendo i gradini della piscina battesimale, ed essere da lì risuscitati con Cristo, potremo predicare la stoltezza per il mondo, la vittoria del potere di Cristo manifestata attraverso l’estrema debolezza della Croce. 

Ma solo per chi crede è vivo ciò che sembra morto; per chi non crede, anche se in effetti dorme, resta come morto. Per questo, senza la fede, crollano le speranze e non c’è nulla da fare: un prete che non ha una fede adulta non aiuterà le persone, le spingerà giù per il burrone, consigliando loro di farsi giustizia, di reclamare i propri diritti, e somministrerà placebo, al massimo un’aspirina… Un prete o un genitore, o un amico o un fidanzato senza fede accompagneranno le persone al funerale della propria vita. Ma chi, invece, ha fede, annuncerà quello che ha sperimentato, e aiuterà a “salvare” un matrimonio risuscitandolo, il figlio ad “alzarsi” come la fanciulla del vangelo, e Matteo usa proprio il verbo “egerthe” tipico della risurrezione; chi ha fede implorerà e Gesù “salverà” una ragazza dall’abortire, o un marito a vivere nella verità amando laddove il mondo dice di lasciar perdere. La fede della Chiesa, in seminario, in parrocchia, nella propria comunità o movimento, in famiglia, è l’unica che strappa l’onnipotenza a Dio. Anzi, la fede ci dona la sua stessa onnipotenza di fronte alla morte. Se lo credessimo davvero, chi ci farebbe paura? chi ci potrebbe ingannare? Nessuno, come è accaduto all’emorroissa. Il dolore per il male l’aveva resa audace; sapeva che, secondo la Legge, non poteva “toccare” Gesù. Ma stava morendo, e lì a due metri passava la vita…

Un po’ come Tommaso, anche lei intuiva che quel Rabbì era carne della sua carne, e solo toccandolo sarebbe potuta “guarire”. Lui era l’unica carne capace di guarire la sua carne, perché in Lui la Legge s’era compiuta, e ogni promessa realizzata. Per questo cerca il “lembo del suo mantello”. E’ in quel frammento di stoffa che risplende la novità! Quelle frange l’avrebbero rivestita di un vestito nuovo, la veste bianca che, lavata nel sangue dell’Agnello, la poteva purificare da ogni impurità, e schiuderle l’accesso alla liturgia di lode sino allora preclusa. Toccarlo significava poter tornare in Paradiso, vivere secondo natura, una donna vera, una sposa, una madre, una vergine! In quel momento la donna si trova sulle falde del Sinai, la Torah era a un passo, con il suo potere fatto carne in Gesù. Perché per lei, come per ciascuno di noi, concretamente “toccare” Cristo è ascoltare la sua Parola, la predicazione della Chiesa, e accoglierla. Perché la “fede” viene proprio dall’ascolto! Basta un briciolo di fede, lo abbiamo visto; un moto del cuore, perché Lui le agitazioni esterne, le nevrosi e i sensi d colpa, i dubbi e i pensieri, le angosce e le derisioni del mondo, li fa “ritirare”. Il suo amore si appoggia anche su una sola nostra parola balbettata. 

Non importa se lo cerchiamo solo quando siamo giunti all’ultima spiaggia, è Lui che ci lascia scendere, in quella relazione, in quel lavoro, nello studio, l’ultimo gradino della nostra forza presunta. E lì, di fronte al mare e con dietro l’esercito del Faraone, possiamo imparare ad attendere il suo intervento miracoloso che sgorga dall’umile confidenza di chi non ha più nulla da sperare che un miracolo. Perché appaia il Cielo nella nostra vita, un segno credibile della presenza di Dio nella storia: ogni nostra debolezza, ogni situazione limite, ogni muro invalicabile è per noi e per il mondo il luogo dell’annuncio più autentico. Per questo importa solo il desiderio profondo di toccarlo, di sfiorare il lembo del suo mantello, laddove ogni pio israelita portava lo “tzitzit” (“frangia” in ebraico). “C’è un obbligo nella Bibbia (Nm 15,38) che noi ripetiamo ogni giorno nella preghiera – fa parte dei tre brani dello shemà –, che afferma che sui quattro angoli della veste occorre portare delle frange, di cui un filo sia di colore celeste, colorato con un pigmento speciale derivato da un mollusco…  Il segno esisteva per dire a ogni ebreo: «Ricorda, anche nell’abito che indossi, che esiste Dio ai quattro angoli». Sono frange sulle quali si fanno dei nodi, che seguono una tradizione numerica particolare e simbolicamente rappresentano il nome di Dio. Come tali quindi queste frange rappresentano la parte sacra dell’abito. Ciascun ebreo osservante indossava questo abito e continua a farlo oggi. Non era una veste solo sacerdotale. L’emorroissa toccava perciò la parte sacra dell’abito, toccava quei nodi che rappresentavano il nome di Dio… potremmo dire che l’emorroissa chiedeva una grazia, come atto di bontà nei suoi confronti, hesed“. (Riccardo Di Segni). Basta sfiorare la sua hesed, il suo amore misericordioso.

“Nel termine hesed è insito anche lo slancio entusiastico, come un ardore, la passione nell’atto di amore o di benevolenza” (R. Di Segni). Toccare con la nostra debolezza il suo ardore d’amore; accendere il fuoco della sua passione con il solo tendere mendicante della nostra mano. Lo possiamo “toccare” nella Chiesa, che è il suo corpo, nell’esperienza dei fratelli, nella predicazione; in un istante di fiducia lo “toccheremo” in una celebrazione, nel sacramento della confessione e dell’eucarestia, nella preghiera. Questa è già la fede che “salva” per “guarire”. Lì, nella parte più vera di noi, un grido. Un abbandono, nella certezza profonda d’essere ascoltati. E così, risuscitati con Cristo e divenuti una sola cosa con Lui, potremo offrirci a nostra volta per farci “toccare” dai peccatori. Ovunque andremo porteremo sul lembo della nostra carne l’onnipotenza della Parola di Dio: basta essere accanto al fratello, senza difenderci, offrendoci crocifissi per lui. Così Dio vince il male, nel silenzio nascosto del martirio dei suoi figli.