don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 5 Gennaio 2021

FISSATI DALLO SGUARDO CELESTE DELLO SPOSO NELLA MISERICORDIA CHE SPEGNE LA MALIZIA 

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AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Per salvarsi e conoscere verità e felicità bisogna “incontrare” Gesù. E Dio si è fatto carne proprio per “incontrare” l’umanità, cominciando dalla “Galilea delle genti”. Essendo l’ultima propaggine di Israele sul confine con le terre pagane, essa era un po’ dogana e un po’ terra di nessuno; era appoggiata sulla “via del mare” come su una spina dorsale, la sostenevano traffici e commerci. Era quindi terra di contraddizioni, immagine dell’incoerenza dei coerenti, della carne debole che vanifica Legge e moralismi. Per questo, la Galilea è la nostra vita, una primogenitura che fatica a restare a galla tra i marosi del mondo. Galilea è questo momento dell’esistenza di tuo figlio, come la storia e i luoghi di ogni uomo. Non c’era terra migliore dove iniziare la missione, e per questo Gesù ha “stabilito di andarci”, facendo della Galilea la profezia di ogni luogo dove chi lo “cerca” lo può “trovare”, e chi non lo cerca può essere trovato.

Come è accaduto ai primi cinque “discepoli”. Cinque era, infatti, il numero minimo di discepoli che doveva avere un rabbino; ma cinque sono anche i libri della Torah, come i sensi dell’uomo: quei cinque discepoli erano la primizia della Chiesa, l’assemblea santa radunata da Gesù nella quale la Torah si sarebbe fatta carne e sensi, perché l’uomo finalmente potesse vivere secondo l’immagine e la somiglianza del suo Creatore, al servizio cioè dell’amore. Erano Andrea, Giovanni, Pietro e poi Filippo e Natanaele. Filippo, era stato “incontrato” da Gesù che lo aveva “chiamato”: “seguimi”, che letteralmente significa “metti i tuoi passi nei miei passi”. Nessun discepolo, infatti, si appartiene, ma è il frutto benedetto dell’incontro con il Maestro. Incontrato per incontrare, amato per amare, un discepolo è carne della carne di Gesù, ogni suo pensiero, sguardo, parola e gesto è un passo deposto nel suo passo. Per questo Gesù potrà dire a Natanaele di “averlo visto sotto il fico prima che Filippo lo chiamasse”. Era Lui che lo aveva “incontrato” perché lo “aveva visto prima” che la carne lo inducesse a dubitare che il Messia potesse venire da una città mai nominata dalla Scrittura. Filippo stesso era la prova di quell’amore che andava al di là di ogni obiezione; si trovava lì perché lui per primo era un frutto della misericordia di Dio che perdona il peccato trasformando il cuore. 

Non a caso, infatti, sulle labbra di Filippo sorgevano le stesse parole che Gesù aveva detto ad Andrea e a Giovanni: “vieni e vedi”. E Natanaele ascolta e obbedisce, perché si è sentito “cercato” e amato da Filippo “sotto il fico” dove i saggi scrutavano le Scritture, accogliendo anche i suoi dubbi, senza moralismi. E seguendo Filippo ha potuto “incontrare” il Messia: nessuno aveva “conosciuto” il suo intimo “privo di malizia”, neanche lui stesso. Perché nessuno lo poteva aver “visto” già perdonato! Gesù sì, e per questo era il Messia: aveva “visto” la “ricerca” di Natanaele uguale a quella di ogni uomo. Non gli importava dei suoi dubbi, gli importava il suo desiderio di Lui. Lo stesso che vede oggi in te e in me: dove sei seduto cercando la felicità? Forse sei già nella Chiesa, e preghi e cerchi di capire come Natanaele. O forse sei in Galilea, commerciando affetti e stima, sperando dal mondo verniciato di religione un briciolo di pace e di gioia. O forse sei completamente in terra pagana, schiavo di qualche concupiscenza, al guinzaglio di qualche peccato. 

Non importa, non oggi! Gesù sa “vedere prima” dei nostri peccati il desiderio del suo amore che c’è nel nostro cuore. Sa che “da Nazaret non poteva venire niente di buono”, ma vi è sceso per trasformare in buono ciò che non lo è. Come ha fatto con Natanaele, trasformando il suo dubbio in una splendida professione di fede: “Rabbì, tu sei il Figlio di Dio, tu sei il re d’Israele!”; ogni attesa messianica si coagulava in quell’uomo venuto da Nazaret. Sì, c’è “falsità” in noi: il nostro cuore trama sempre gettando “esche” perché gli altri abbocchino, secondo il senso originale del termine reso con “falsità”. Noi “incontriamo” gli altri per farne delle prede con cui saziarci. Ma Gesù ha il potere di estirpare questo veleno e farci liberi per amare. Ci vede, infatti, come ha visto Giacobbe, stanco e claudicante; e ci appare oggi sulla Croce per donarsi, chiamandoci a salirvi per contemplare “cose più grandi” anche dell’essere amati così come siamo. E che cosa c’è di “più grande” di questo? Amare così come siamo amati. “Salire e scendere” come “angeli” (messaggeri) con Cristo sulla “scala” della Croce per incontrare i peccatori, annunciargli il Vangelo, e condurli in Cielo.

Vivere così è la “cosa più grande” che ci sia: aprire il Cielo sugli uomini ai quali il demonio lo ha chiuso, gettandoli nella disperazione e nei peccati. Vivere la vita del Messia “figlio di Giuseppe”, il servo sofferente della tradizione ebraica, che ha offerto se stesso per strappare gli uomini alla morte.

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