don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 4 Settembre 2019

SALVATI NELLA COMUNITA’ CI CHINIAMO CON CRISTO SU OGNI UOMO PREDA DELLA FEBBRE DEL PECCATO 

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Dalla sinagoga alla casa: dopo aver scacciato il demonio che affligge la comunità, e averla purificata, Gesù si dirige a casa. Prima dell’intimità vi è la “bonifica” dell’ambiente. Senza la “sinagoga” – comunità non vi può essere autentica e profonda guarigione, perché solo in essa i demoni vengono alla luce per essere scacciati. Nel mondo essi si camuffano e nessuno li disturba… Per questo i discepoli, forti dell’esperienza vissuta nella sinagoga, possono pregare “insieme” per la suocera di Simone. La fede, infatti, non è mai una questione privata. Le fughe intimistiche sono sempre malsane e precludono qualsiasi guarigione: “non isolatevi, rinchiudendovi in voi stessi, come se foste già giustificati, ma riunitevi insieme cercando quello che è di vantaggio per tutti” (Dalla “Lettera” detta di Barnaba”). Vediamo, quale è l’atteggiamento di fronte al fratello quando è “in preda a una grande febbre”? Cosa penso, dico e faccio, insieme ai fratelli di fronte alla sua impossibilità di alzarsi dal letto “servire”? Mi fermo all’esterno della coppa e comincio a riempirlo di catechesi e consigli nello stolto tentativo di purificarlo, oppure accompagno il Signore con una preghiera intrisa di fede perché “si chini” sul suo cuore malato? Attenzione, perché quando cominciamo a investire l’altro con moralismi e consigli, significa che abbiamo dimenticato che “ciascuno di noi è febbricitante. Quando sono colto dall’ira, ho la febbre, e ogni vizio è una febbre” (San Girolamo). Così, come recita il salmo 41 nell’originale ebraico, “quando lo visitiamo diciamo il falso” perché “nel nostro cuore accumuliamo malizia” e “fuori sparliamo” di lui con “accuse inique”; abbiamo su di lui il pregiudizio mondano che condanna il peccatore e non il peccato, perché lo riteniamo causa della sua “febbre”. Per questo, con le nostre parole “religiosamente corrette”, in fondo “tramiamo la rovina per il fratello” perché convinti che, essendo “preda” di “una parola di Belial”, “colui che giace mai si rialzerà”. Etimologicamente “Belial” potrebbe essere reso con “non serve a nulla” (Ravasi). Ed è proprio così, perché in fondo quello che speriamo è che l’altro ci “serva”, e quando ciò non accade lo cancelliamo. Per questo i nostri atteggiamenti nei confronti del fratello infermo sono ipocriti, ispirati dal giudizio di condanna piuttosto che dalla compassione.

Gesù, invece, non rivolge una sola parola alla suocera, ma “intima” alla febbre, come in ogni esorcismo. Lui “si china” su di lei con amore perché, come dicevano i rabbini, “la Shekinah (presenza) di Dio si trova sopra la testa del malato”; non la giudica per condannarla perché sa che Dio non l’ha abbandonata, anche se il demonio l’ha ingannata e la tiene schiava a letto. Non esige nulla come facciamo stoltamente quando pretendiamo che il fratello infermo faccia cose che nemmeno noi facciamo. Gesù si umilia per entrare nella sua malattia, si carica con la sua “febbre” per vincere il demonio che la causa con la sua parola fatta carne. Così noi siamo chiamati a fare, perché “per questo siamo nati” in Cristo sperimentando la guarigione nella Chiesa. Solo con gli occhi della fede che vedono la “presenza” di Dio in tutti, “chinati” accanto al fratello sino a portare con lui la sua “febbre” potremo “intimare” alla sua “febbre” nel Nome di Gesù. Nella libertà dell’amore gratuito siamo “mandati” nel mondo perché tutti possano “levarsi all’istante”, risuscitare e tornare a “servire”. Ma, per non “lasciare parlare i demoni”, cioè per non cadere nelle trappole affettive e non farci “trattenere” dalla carne che esige sempre gratitudine, “sul far” di ogni “giorno” dobbiamo alzarci (risuscitare) nell’intimità con Cristo, ovvero pregare prima di ogni cosa per non dimenticare il suo amore che ci ha salvato. Ci aspetta, infatti, ogni giorno “un’altra città”, un’altra persona verso la quale “uscire”: attraverso i modi più diversi, ci porteranno “infermi colpiti da mali di ogni genere” perché “li conduciamo a Cristo”, l’unico che, “imponendo loro le mani” nella Chiesa, li possa guarire.

Fonte e approfondimenti

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È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato.

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 4, 38-44

In quel tempo, Gesù, uscito dalla sinagoga, entrò nella casa di Simone. La suocera di Simone era in preda a una grande febbre e lo pregarono per lei. Si chinò su di lei, comandò alla febbre e la febbre la lasciò. E subito si alzò in piedi e li serviva.
Al calar del sole, tutti quelli che avevano infermi affetti da varie malattie li condussero a lui. Ed egli, imponendo su ciascuno le mani, li guariva. Da molti uscivano anche demòni, gridando: «Tu sei il Figlio di Dio!». Ma egli li minacciava e non li lasciava parlare, perché sapevano che era lui il Cristo.
Sul far del giorno uscì e si recò in un luogo deserto. Ma le folle lo cercavano, lo raggiunsero e tentarono di trattenerlo perché non se ne andasse via. Egli però disse loro: «È necessario che io annunci la buona notizia del regno di Dio anche alle altre città; per questo sono stato mandato».
E andava predicando nelle sinagoghe della Giudea.

Parola del Signore

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