Facciamo dipendere la nostra identità dall’esile filo che ci lega al «contraccambio» degli sforzi profusi per contare qualcosa nel cuore degli altri. Ci impegniamo per aiutare gli altri, e sono buone intenzioni, ma contaminate dal nostro io, che non riesce a dimenticarsi nel tu, soprattutto quando è ostinato. E cadiamo nello sconforto generato delle frustrazioni. Non possiamo vivere senza le attenzioni di chi crediamo di amare ed è importante per noi; l’indifferenza ci polverizza.
Un figlio cresciuto senza le attenzioni del padre crescerà mutilato, e farà di tutto per attirarne lo sguardo, peccando in misura direttamente proporzionale al disinteresse paterno. Non ti meravigliare se tuo figlio si droga: ti sta chiedendo di prendersi cura di lui. Anche se ti rifiuta, ti vuol mettere alla prova, spremendo la tua pazienza per vedere se davvero è importante per te.
Ma attenzione, questo atteggiamento è frutto dell’inganno demoniaco. Anche se un padre fosse tanto egoista da non degnare di una parola e di uno sguardo suo figlio, questi è comunque libero; ferito, ma libero. L’attitudine del padre non fa che portare alla luce la stessa assenza, la medesima indigenza. Vuoto il padre, vuoto il figlio. L’uno e l’altro, ingannati dal demonio, sono senza vita eterna dentro: il padre senza sapere e poter rispondere alla mendicanza del figlio, e questi incapace di resistere all’urto del rifiuto.
Per non morirne, padre e figlio, come marito e moglie, come due amici o due fidanzati, come ciascuno di noi, mossi dall’orgoglio che impedisce di accettare la propria “povertà”, abbiamo cercato di saziarci con le nostre inutili forze; non potendo far nulla da soli, ci siamo allora serviti degli altri con l’inganno e la seduzione, le menzogne e l’ipocrisia. Per nascondere l’indigenza e l’inadeguatezza abbiamo aguzzato l’ingegno malvagio, truccandoci a seconda delle circostanze, scendendo a compromessi che hanno umiliato la nostra dignità.
Così accade che una ragazza, pur di non perdere il fidanzato al quale si è legata morbosamente, gli consegni il suo corpo; e le sembra di sognare e toccare il cielo, mentre inizia ad essere dilaniata dalla schizofrenia che separa il corpo dall’universo interiore. Unendosi sessualmente, infatti, i due obbligano la carne a esprimere un contenuto interiore che non esiste: si consegnano superficialmente, scambiando il piacere per amore, ma nulla di loro è messo davvero in gioco. Nessun impegno se non quello effimero della passione e dell’innamoramento; nessuna responsabilità, se non quella, effimera, di legarsi reciprocamente sempre più strettamente con i lacci della passione, sino a strangolarsi. Anche questo è “offrire un pranzo invitando gli amici”, ovvero “invitare” alla mensa imbandita del proprio corpo chi poi dovrà “contraccambiare”.
Come succede ai genitori quando diluiscono i «no» che dovrebbero saper dire ai figli permettendogli vestiti e orari inaccettabili, discoteche sature di droga e sesso, vacanze promiscue, gadget costosissimi. Per poi tempestarli di «inviti» al dialogo per non perdere il loro affetto e non dover sopportarne la ribellione e il rifiuto.
Così siamo tutti precipitati nelle sabbie mobili di rapporti morbosi, invischiati nella gelosia che asfissia il cuore. Abbiamo perduto la nostra libertà, e l’abbiamo sottratta agli altri. Siamo caduti nella solita trappola del demonio, irretiti nel suo sofisma perverso; la società e la cultura, la scuola e i media, purtroppo anche molta sicumera ecclesiastica, “hanno fatto credere a questa generazione – a tante altre – che il diavolo fosse un mito, una figura, un’idea, l’idea del male. Ma il diavolo esiste e noi dobbiamo lottare contro di lui” (Papa Francesco). E’ lui che, attraverso la stessa menzogna sussurrata ad Eva, si infila tra marito e moglie, tra genitori e figli, tra fratelli della comunità cristiana: “ehi, apri gli occhi, perché devi umiliarti e obbedire? Tu non sei mica nato per essere “povero, storpio, zoppo e cieco”! Tu devi diventare come Dio”.
Ma possiamo guarire da questa “peste” dell’anima? Si, con l’umiltà che sgorga dalla verità che ci annuncia la Chiesa: “Dio ci ama infinitamente così come siamo, poveri, storpi, zoppi e ciechi”. Peccatori. Per questo siamo mendicanti di tutto; abbiamo creduto al demonio che, invece di farci diventare come Dio ci ha fatto diventare come lui, trascinandoci fino alle soglie del suo regno di morte.
Dio ci ha creato “perfetti”, ovvero senza mancare di nulla; ci ha dato una spina dorsale segno della nostra dignità altissima; e gambe per camminare nella sua volontà; e occhi per vedere in essa il suo amore di Padre. Se oggi siamo “poveri, storpi, zoppi e ciechi” è perché abbiamo seppellito l’immagine e la somiglianza di Dio sotto quelle del demonio. Assomigliate a lui, ci ripete Gesù: “voi che avete per padre il diavolo, e volete compiere i desideri del padre vostro” (Gv. 8,44).
Così siamo! E così ci ama Dio! Ma non è facile accettarlo. Chi oggi riconosce di non aver nulla, di non poter mangiare, bere, dormire, se qualcuno non gli dona cibo, bevanda e alloggio? Chi accetta di non potersi muovere e camminare se qualcuno non lo aiuta e sorregge? O che non vede nulla, e se qualcuno non lo prendesse per mano sbatterebbe contro sedie, tavoli, pareti?
Abbiamo bisogno di imparare a conoscerci e accettare chi siamo. Ma solo nella Chiesa è possibile farlo senza impazzire, perché solo in essa, ad ogni gradino disceso sulla scala dell’umiltà possiamo incontrare lo sguardo di misericordia del Padre e le mani crocifisse di Gesù pronte a sostenerci e rialzarci. Questo sta “dicendo Gesù al capo dei farisei che lo aveva invitato”: stai attento, perché sei schiavo e non lo sai. Hai invitato anche me sperando un contraccambio, immaginando qualche vantaggio. Come noi, che ci avviciniamo a Lui, e lo “invitiamo” alla nostra vita come un ospite di riguardo, per carità, ma sperando che ci aggiusti la vita.
Ma non importa. Oggi va bene anche così. Gesù sa che la solitudine ci ha resi opportunisti; e, per amore, coglie qualunque occasione che gli offriamo, anche quelle macchiate con la malizia. Non si è mai tirato indietro, come ci insegna l’attitudine di Papa Francesco, suo vicario in terra. Lui accorre sempre. Non ha schemi, si fa invitare da Zaccheo e da Matteo come dal capo dei farisei. Viene a mangiare alla tavola di tutti e la trasforma, come da Marta e Maria, in un banchetto che profuma di vita eterna. Gesù ha il potere di far nascere una comunità in ogni casa di “poveri, zoppi, storpi e ciechi” nella quale è invitato: ama, si dona e accoglie nella sua misericordia ogni peccatore, diffondendo, come rugiada pasquale, la comunione.
Questo mistero di salvezza si compie ogni giorno nelle nostre comunità. In esse siamo accolti così come siamo, senza moralismi ed esigenze. La Chiesa, che è madre, ci conosce, e sa che non possiamo dare alcun contraccambio per le sue cure amorose. Come si può esigere qualcosa da chi non ha nulla? Come esigere il perdono da chi non ha conosciuto il perdono. Come esigere la castità da chi non è stato accolto nel grembo casto della Chiesa dove rinascere nella verginità? Come sperare impegno e dedizione in parrocchia da chi ha bisogno di essere lavato, imboccato, accompagnato?
La Chiesa lo sa e per questo è la casa della “beatitudine”! Niente a che vedere con l’integralismo del mondo. Nulla di più lontano dal moralismo giustizialista che respiriamo ovunque, tra cortei e trasmissioni televisive, sempre malmostoso e rancoroso, in cerca di responsabili della propria infelicità. La Chiesa, spicchio di Cielo sulla terra, è “beata” perché sin dal suo nascere è stata inviata a cercare e ad “invitare” i peccatori ai crocicchi delle strade, sino agli estremi confini della terra. E’ “beata” perché ha “invitato” noi, quando eravamo tristi e adirati, frustrati e sconsolati, con tanto risentimento e nessuna ragione per dir grazie e ricompensare nessuno.
La Chiesa è “beata” perché ama nell’amore del suo Sposo, l’unico che si dona davvero. E’ morto non solo per chi non aveva nulla per contraccambiare, ma si è “offerto” sulla Croce come su una mensa imbandita a chi lo stava uccidendo. Per questo il Padre lo ha risuscitato donandogli la “sua gioia”, la beatitudine che sgorga dall’esito stupefacente dell’amore senza più limiti come l’acqua da una sorgente inesauribile.
La comunità cristiana è “beata” anche perché accoglie Cristo in ogni ultimo della terra. Nella passione Egli si è fatto “povero”, spogliato di tutto; “storpio” per le battiture e “zoppo” sotto il peso della Croce; “cieco” per il sangue che colava dalla corona di spine. Si è fatto come ciascuno di noi per renderci come Lui.
E ciò si realizza nel cammino di fede che compiamo nelle nostre comunità, dove impariamo l’umiltà che ci apre alla Grazia. Essa trasforma un egoista in un pezzo di pane offerto gratuitamente agli affamati d’amore. L’amore gratuito, infatti, si veste della libertà che nasce dalla consapevolezza dettata dall’esperienza della propria realtà amata e trasformata da Dio.
Questo amore è la primizia della “ricompensa” celeste. Se non la gustiamo non potremo fare nulla gratuitamente. Ma se ci saziamo al banchetto eucaristico e alla mensa della Parola di Dio che la Chiesa ci “offre”; se, come la peccatrice prostrata ai piedi di Gesù proprio a casa di un fariseo, vi sperimentiamo il potere di Cristo di farci ricchi con la sua vita che non si esaurisce, di sanarci e farci camminare sulle sue orme, si aprirci gli occhi sul suo amore disseminato nella nostra storia, allora nascerà in noi la fede, la certezza che il compimento della nostra vita è in Cielo.
Fondati su di essa, vivremo considerando inutile e dannoso sperare di cambiare i rapporti per perfezionarli qui sulla terra, mentre proprio la precarietà ci impedisce di appropriarcene. Lavorare, studiare, cucinare, lavare e stendere, fare qualunque cosa aspettando o esigendo una ricompensa è stolto e frustrante, come di chi volesse “trarre uva dalle spine”.
«Beato», invece, è colui che «invita» il prossimo accogliendolo come è stato accolto lui da Cristo e dalla sua Chiesa. “Beati” siamo noi quando la Grazia ci concede di “invitare” alla mensa della nostra vita chi non ha nulla per «contraccambiare» per “offrire” gratuitamente il nostro tempo, l’attenzione, il rispetto, la pazienza, la tenerezza, il perdono, l’amore in tutto noi stessi; è proprio allora che il Signore si fa presente provvedendo con più generosità.
Siamo chiamati ad “invitare” la moglie quando è più povera e più debole; a perdonarla e a donarci a lei quando la carne la rifiuterebbe perché non vi trova nessuna soddisfazione; questo sarà possibile solo se in noi è viva la memoria di Gesù che ci ha “invitato” quando non avevamo che peccati e ribellioni. Saremo “beati” quando Lui amerà in noi e ci donerà il suo sguardo di misericordia su chi ci è accanto.
Capite? E’ “beato” un fidanzamento nel quale i due ragazzi non sperano nulla l’uno dall’altro, nella consapevolezza d’essere entrambi infinitamente poveri. Certo, è una relazione che dista anni luce da quelle che scorrono, vellutate, sugli spot e nelle clip di youtube, raccontate da romanzi e film, cantate da musica e poesia. Anni luce, appunto, come la distanza che separa la terra dal Cielo. Ma Cristo è morto ed è risorto per deporre sulla terra l’amore celeste, nel quale vivere, liberi, ogni rapporto. Per questo è “beato” quel fidanzamento nel quale i due sapranno sperare insieme la stessa “ricompensa” da Cristo, l’amore celeste più forte del peccato e della morte nel quale si sposeranno consegnandosi per sempre l’uno all’altra.
Perché ogni relazione si compie solo nel banchetto preparato da Gesù. Il fariseo, come anche noi, pensava di essere stato lui ad “invitare” Gesù. Non sospettava che, al contrario, facendosi ospite, era Gesù ad invitare lui al banchetto nel quale era pronto ad offrire se stesso come cibo di vita eterna. E così accade in ogni relazione aperta all’opera di Gesù Cristo: il matrimonio, ad esempio, non siamo noi a prepararlo e a invitare il coniuge; è Cristo che ha preparato tutto perché, nel sacramento, si doni agli sposi per colmare la loro debolezza con il suo amore.
Chi “invita”, colui che si apre, accoglie e si dona a chi non lo considera, lo giudica e forse lo disprezza, è “beato” perché in questa gratuità sperimenta il Cielo sulla terra! Esattamente come il ladrone pentito crocifisso accanto al Signore è entrato con Lui nel Paradiso. Questo amore è il segno che esiste la vita eterna, infinitamente più grande, libera e felice di quella della carne: una vita che non è vincolata alla “ricompensa” è una vita piena in sé, e per questo libera, che è una delle traduzioni della vita “beata”.
Ogni rapporto è un cantiere aperto al dono di Dio; l’unico modo per vivere in pienezza il matrimonio, la famiglia, l’amicizia e il fidanzamento è accogliere insieme all’altro l’«invito» del Signore alla sua mensa dove lasciarsi sfamare ogni istante dai frutti fecondi della sua «risurrezione». Solo in essa potremo amare realmente, senza aspettarci alcuna ricompensa. Perché la gioia vera sta nel donarsi, non nel farsi amare. Qui è nascosto il segreto di un matrimonio fedele e indissolubile, di un’amicizia sincera, di una relazione autentica e libera. Partecipare ogni istante, insieme, alla “resurrezione” di Gesù; “giustificati” per fare “giustizia” al fratello, che non è assecondarlo nelle sue insoddisfazioni e frustrazioni ma amarlo così com’è, perché si senta importante per Dio. Coraggio allora, usciamo ogni giorno con Cristo dal sepolcro dell’egoismo, pregando, ascoltando la sua Parola e nutrendoci ai sacramenti, sino a giungere alla nostra resurrezione, quando saremo “giusti” in virtù della “Giustizia” di Dio, sempre e infinitamente misericordiosa.