AL NOSTRO POSTO NELLA VERITA’ CON L’AMICO CHE CI AMA E CI FA PASSARE DALLA MORTE ALLA VITA
C’è un modo particolare e del tutto personale di mettersi al primo posto. E’ quello che ciascuno di noi, per carattere, vicende della vita e quant’altro, escogita per sé stesso. Per essere primo, per trapassare il cuore dell’altro ed essere amato, ricordato, considerato, usiamo quel che abbiamo, peschiamo nelle nostre capacità, raschiamo il barile e ci giochiamo le carte: chi la simpatia, chi la cultura, chi il fascino della bellezza, chi il corpo, chi il molto parlare, chi il silenzio; ognuno con il proprio marchio di fabbrica. Anche le pseudo-umiltà grasse d’orgoglio ne sono chiari esempi.
Come il figlio prodigo, ci prendiamo la parte di eredità che ci spetta, le Grazie ricevute e che ci caratterizzano e ci costituiscono per quell’irripetibile creatura che siamo, e scappiamo rincorrendo un sogno, un’illusione, una menzogna. E, seguendo la carne e i suoi desideri, sperperiamo tutto quello che Dio aveva preparato per noi e per la missione speciale alla quale siamo stati chiamati. Ricevute in dono per metterle al servizio della giustizia, dell’amore e della testimonianza, abbiamo sottoposto le nostre membra e tutte le nostre caratteristiche e qualità al servizio dell’egoismo, della carne e del peccato; ci siamo così ritrovati, ci ritroviamo ogni giorno, come il figlio prodigo, all’ultimo posto, a cercare di cibarci delle bacche destinate ai porci, senza neanche trovare chi sia disposto a darcene un po’. Dopo aver dilapidato tutto per afferrare il primo posto, e con esso stima e affetto e qualcosa per sfuggire la solitudine e la paura, ci ritroviamo ancora più soli, senza nessuno che sia disposto a darci anche solo un tozzo di pane, un pezzetto minuscolo del proprio tempo e del proprio cuore. La scalata al primo posto ci ha precipitati all’ultimo posto, come Lucifero: “Negli inferi è precipitato il tuo fasto, la musica delle tue arpe; sotto di te v’è uno strato di marciume, tua coltre sono i vermi. Come mai sei caduto dal cielo, Lucifero, figlio dell’aurora? Come mai sei stato steso a terra, signore di popoli? Eppure tu pensavi: Salirò in cielo, sulle stelle di Dio innalzerò il trono, dimorerò sul monte dell’assemblea, nelle parti più remote del settentrione. Salirò sulle regioni superiori delle nubi, mi farò uguale all’Altissimo.E invece sei stato precipitato negli inferi, nelle profondità dell’abisso!” (Is. 13, 11-15).
Per questo il mettersi all’ultimo posto di cui ci parla il Vangelo di oggi scaturisce da una semplice consapevolezza. Guardarsi le mani, abbassarsi sul proprio cuore, rivedere i pensieri e riconoscersi senza alcun merito. Senza alcun diritto, per nulla e nei confronti di nessuno. E’ il “naturale” atteggiamento del figlio che ha dilapidato ogni sostanza e si ritrova al fondo dell’abisso, l’ultimo luogo in cui avrebbe voluto vivere, quello dove la superbia lo ha precipitato. L’ultimo posto, il posto impuro, quello dei porci, animale immondo per eccellenza. L’ultimo posto, dove è impossible il culto, l’offerta, il dono della propria vita, il posto dove è impossibile amare gratuitamente. Il nostro posto, quello vero, quello che sperimentiamo ogni giorno. E dove possiamo rientrare in noi stessi e nella verità. L’ultimo posto è dove, per la pura misericordia di Dio, si manifesta la nostalgia della casa del Padre, dell’intimità del suo amore, del luogo dove le nostre sostanze, doni ricevuti che ci fanno quel che siamo, sono a servizio della Verità e della giustizia, della sua volontà. E così si innesca la conversione, si riaccende il santo desiderio di quanto perduto e solo assaporato.
Santa umiltà, santa verità. Seduti al proprio posto, quello che ci spetta, l’ultimo, ci raggiunge, gratuito e del tutto inaspettato, l’amore di Dio, la Sua misericordia. Lì, all’ultimo posto, quello dei peccatori, si è seduto Cristo, e con Lui si sono seduti gli Apostoli; la Chiesa intera è all’ultimo posto del mondo, per raccogliere il dolore, la nostalgia e la solitudine di ogni uomo precipitato al’inferno per l’inganno del demonio. “Ritengo infatti che Dio abbia messo noi, gli apostoli, all’ultimo posto, come condannati a morte, poiché siamo diventati spettacolo al mondo, agli angeli e agli uomini. Noi stolti a causa di Cristo, voi sapienti in Cristo; noi deboli, voi forti; voi onorati, noi disprezzati. Fino a questo momento soffriamo la fame, la sete, la nudità, veniamo schiaffeggiati, andiamo vagando di luogo in luogo, ci affatichiamo lavorando con le nostre mani. Insultati, benediciamo; perseguitati, sopportiamo; calunniati, confortiamo; siamo diventati come la spazzatura del mondo, il rifiuto di tutti fino a oggi” (1 Cor. 4,9-13).
Proprio per essere stati scelti quali testimoni della Verità, araldi del Vangelo di Cristo, ci aspetta oggi l’ultimo posto, quello che ci fa soffrire, il posto dove siamo quello che siamo e dove ci raggiunge lo sguardo del Padre, la sua tenerezza e la sua gelosia, il suo perdono. Oggi il Padre corre al nostro incontro, ci abbraccia e ci sussurra le parole più dolci: amico vieni più avanti, quì vicino a me, al tuo posto, quello che ho preparato da sempre per te. Anche oggi siamo sollevati dall’immondizia e fatti sedere tra i principi. Questo è il destino degli umili, di quelli che vivono nella verità, la propria povera realtà, il vuoto scavato nel nostro intimo, l’ultimo posto scelto dal Signore per entrarvi, sedervicisi, e colmarlo del suo amore; Lui con noi all’ultimo posto per farci sedere alla destra del Padre, nel Cielo della gioia e della pienezza autentiche, il primo posto conquistato dalla sua risurrezione. Di questa possiamo essere testimoni solo a partire dall’umiltà che ci fa vivere nella verità. Non ci stupiremo allora del posto che ci aspetta, è il nostro, per conoscere Lui e vivere nella sua amicizia: e così averne onore tra tutti i commensali, l’onore che ha ricevuto il Signore proprio per essere sceso all’ultimo posto, umiliandosi sino alla morte e alla morte di Croce. L’onore del Nome più alto, l’unico nel quale vi è la salvezza: l’onore di Cristo in ciascuno di noi davanti ad ogni uomo, perchè intercetti nella nostra umiliazione la misericordia di Dio; l’onore che attira e accompagna tutti gli ultimi della terra a sedersi alla destra del Padre, riscattati per la beatitudine eterna. E’ l’esperienza di San Paolo, di S. Ignazio di Antiochia, descritta magistralmente da Benedetto XVI: Paolo presenta “umilmente se stesso come “l’infimo degli apostoli”, paragonandosi persino a un aborto e affermando testualmente: “Io non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però ma la grazia di Dio che è con me” (1 Cor 15,9-10). La metafora dell’aborto esprime un’estrema umiltà; la si troverà anche nella Lettera ai Romani di sant’Ignazio di Antiochia: “Sono l’ultimo di tutti, sono un aborto; ma mi sarà concesso di essere qualcosa, se raggiungerò Dio” (9,2). Ciò che il Vescovo di Antiochia dirà in rapporto al suo imminente martirio, prevedendo che esso capovolgerà la sua condizione di indegnità, san Paolo lo dice in relazione al proprio impegno apostolico: è in esso che si manifesta la fecondità della grazia di Dio, che sa appunto trasformare un uomo mal riuscito in uno splendido apostolo. Da persecutore a fondatore di Chiese: questo ha fatto Dio in uno che, dal punto di vista evangelico, avrebbe potuto essere considerato uno scarto!” (Benedetto XVI, Catechesi su San Paolo).
AUTORE: don Antonello Iapicca
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