don Antonello Iapicca – Commento al Vangelo del 3 Aprile 2022

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LA MISERICORDIA CHE CI SPOSA A CRISTO


AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE

Una “donna”, senza nome, puoi mettere il tuo, posso mettere il mio. Un peccato, l’adulterio, il mio e il tuo. Sembrava amore e invece era solo passione, gli ormoni a dettare legge per fuggire da un matrimonio che non aveva più nulla da dire; magari il marito è da un secolo che la stava trascurando, chiuso nella sua banale superficialità. E una “donna”, si sa, ha bisogno d’essere considerata, corteggiata, ne va della sua femminilità. Forse l’aveva tradita, e non poteva sopportarlo, doveva fargliela pagare. O forse era stata solo una sbandata, un fremito, di quelli che ti prendono quando qualcuno ti fa sentire importante; quelle parole che nessuno le aveva mai detto, e sembrava capire tutto di lei, s’era accorto addirittura che aveva cambiato rossetto.

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L’occasione aveva bussato, e l’aveva trovata indifesa, incapace di resistere. Quel volto, e quella voce d’uomo, proprio in quel momento, proprio sulla soglia della depressione, una vita spesa tra lavoro, fornelli e bucati; e lo dicono anche gli psicologi, e poi i film, le canzoni, la televisione, non si può perdere così la dignità, da troppo tempo aveva dimenticato d’essere una “donna”, di quelle vere, autodeterminate; non era mica nata per fare solo la madre e la moglie, altro che sottomissione…

Ecco, quell’uomo che le si avvicinava le aveva improvvisamente incendiato l’orgoglio. E’ lì, nel fondo melmoso del cuore, dove s’agita il demone più feroce, che sempre tutto ha inizio. Di colpo s’era trovata dinanzi all’albero, come la prima delle “donne”, con un futuro di libertà e felicità da cogliere senza pensarci troppo. E’ vero che qualcosa le diceva che no, non era proprio così, che s’era sposata perché lo aveva desiderato e deciso, che, pur tremando, la fedeltà l’aveva promessa felice per tutti i giorni della sua vita; che quei bambini erano la luce dei suoi occhi, e che era orgogliosa che portassero il nome di suo marito, che le piaceva perfino che gli assomigliassero. Ma sottomessa no; quello sguardo dolce, quelle parole a pranzo, quella presenza improvvisa le stavano finalmente indicando la ragione del sottile malessere che l’aveva afferrata da tempo: il limite, il sacrificio, l’obbedienza e il dono di sé, tutto era troppo, si sentiva frustrata, quanto era che non usciva con un’amica per fare shopping? In fondo lui non era neanche bello; intelligente e comprensivo si dice, ma nulla di più.

Non era di lui che s’era invaghita accidenti, non era passione per un uomo, checchè ne dicesse la sua collega. Di se stessa s’era innamorata, e questo si chiama superbia. Lui era solo uno sguardo e una voce prestate al serpente; lei desiderava un’altra se stessa, perché quegli occhi e quelle parole che l’avevano turbata, i complimenti e le gentilezze che le scompensavano gli ormoni, in fondo la stavano disprezzando senza pietà.

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Quell’uomo stava stracciando e buttando nella spazzatura ciò che lei era stata sino a quel momento: donna, sposa e madre. Insinuandole una menzogna la stava spingendo a tradire se stessa, perché ciò che era non valeva, non serviva. Doveva essere la sua amante per valere. Come fece con Eva, il demonio le stava dipingendo il quadro della “donna” che non sarebbe mai stata: servita, obbedita, valorizzata, rispettata, amata, non perché “donna”, e sposa, e madre, non perché immagine della Chiesa per la quale Cristo ha offerto se stesso, ma perché sarebbe divenuta come dio.

A questa menzogna aveva legato il suo cuore, e ogni abbraccio, ogni bacio, ogni amplesso, ogni parola e ogni istante passato con l’amante era un frammento di morte che si impadroniva di lei. E ora era lì, come Eva, “sorpresa in flagrante adulterio”; e “Mosè, nella Legge, ha comandato di lapidare donne come questa”. Era giusto così, perché la pioggia di pietre le avrebbe solo dato pubblicamente la morte che il suo cuore e la sua carne avevano scelto e consumato nel segreto. Per questo era lì “nel mezzo”, come un esempio per quanti avevano in animo di peccare.

Gli “scribi e i farisei”, del resto, avevano già condannato l’adultera; ma avevano bisogno di lei per condannare il Signore. Il suo adulterio, infatti, sarebbe servito per “mettere alla prova Gesù e avere di che accusarlo”. Ma proprio qui appare la Pasqua, il mistero che ci stiamo preparando a celebrare. La Pasqua che stravolge tutto: proprio il desiderio di accusare Gesù avrebbe salvato quella donna! Gesù stava “insegnando” la Torah, la Legge sulla quale venivano a metterlo alla prova: “tu che ne dici?”.

Forse stava spiegando perché in Galilea aveva predicato che bastava uno sguardo di concupiscenza per commettere adulterio con una donna nel proprio cuore. Che è da lì che iniziamo a tradire Dio, noi stessi e gli altri… Ma ora, misteriosamente, non dice nulla, “si china”, e comincia a “scrivere in terra con il dito”. Fa un segno, e nessuno lo capisce. Il suo dito sembra sfiorare così la debolezza di quella donna, fatta di “terra” come tutti quelli che erano lì, il popolo giustiziere, gli scribi sapienti e i farisei integerrimi.

Il suo dito era una carezza che annunciava la verità: la Legge, la libertà, l’amore, il cammino della vita, tutto è scritto sulla polvere che è il cuore di ogni uomo. Un po’ di vento cavalcato dalla tentazione, e la vita scappa via. Per questo Gesù ci dice oggi: “chi di voi è senza peccato, getti per primo la pietra contro di lei”. Tutti hanno peccato. Tutti hanno commesso adulterio con il demonio separandosi da Dio. Tutti hanno creduto alla menzogna e hanno pensato di poter essere diversi, come Dio. E tutti sono morti.

Allora, che fate? Vi cominciate a prendere a sassate fino a che non vi ammazzate tutti? E’ questo che diceva Mosè? No, perché la Torah parla di me, in ogni sua pagina. Annuncia che davvero i vostri peccati sarebbero stati la mia accusa e la mia condanna, scritti tutti sulla Croce. Annuncia il perdono per ogni peccato, l’unico giudizio capace di estirpare il male e scrivere la Legge nel cuore. Guardiamoci dentro allora, e non potremo far altro che “tornare a casa”, a cominciare dai più “vecchi”, arrugginiti nei peccati. E convertirci e chiedere perdono a quanti abbiamo giudicato, anche alla moglie adultera, anche al marito assente che ha tradito.

“Dove sono gli accusatori?” Dov’è il documento che ci condanna? Quando, ogni giorno, vibra nel cuore il giudizio inclemente verso se stessi e verso gli altri, emerge il giudizio di Dio che è la misericordia. Dove tutti ci abbandonano, dove tutto, giustamente e ragionevolmente, ci condanna, il suo amore è l’ultima Parola. Gesù, il comandamento del Padre scritto sulla terra della nostra esistenza, il Cielo inciso sul nostro cuore, la misericordia nella nostra debolezza; Gesù, che ci ripete oggi: “neanche io ti condanno”. Chi ha incontrato l’amore gratuito di Cristo, chi ha sperimentato che “nessuno” l’ha condannato, “va, cammina nella Chiesa in una vita nuova, la vita di Cristo, e per questo non pecca più”; guarda l’altro con gli occhi e il cuore di Cristo, e gli ripete le stesse parole: neanche io ti condanno. Una “donna” che incontra Cristo cesserà di tradire Dio, se stessa, suo marito e suoi figli.

In Lui che consegna se stesso per lei ha, infatti, trovato lo Sposo che la ama così come è. In Lui può essere “donna”, moglie e madre sino in fondo, sottomessa per amore a Cristo al marito che non sa più condannare… E come lei ciascuno di noi in questa Pasqua, perdonati per accogliere tutti nella misericordia.