NELLA TENDA DELLA CHIESA CON CRISTO PER CONOSCERLO NELL’INTIMITA’ DEL SUO AMORE
Quella delle Capanne era “la” festa, ricordava l’Alleanza e il tempo del deserto, le viscere nelle quali si è formato il popolo di Israele: “…tutti i cittadini d’Israele dimoreranno in capanne, perché i vostri discendenti sappiano che io ho fatto dimorare in capanne gli Israeliti, quando li ho condotti fuori dal paese d’Egitto” (Lv 23:41). La Festa cadeva in settembre al culmine del raccolto; accanto all’attesa, Israele celebrava dunque il compimento. Le capanne erano il segno di una promessa destinata a compiersi, e la Festa celebrava la fedeltà di Dio che illumina il cammino con la speranza fondata sull’esperienza.
Per questo era chiamata anche Festa della gioia; essa seguiva la grande espiazione di Kippur, l’esperienza del perdono che rigenera la comunità nella comunione fondata sulla gratuità della misericordia. Entrando e dimorando nelle capanne gli israeliti celebravano il memoriale di quel tempo, ovvero il ricordo degli eventi passati attualizzati nella situazione di ciascuno. Per questo, al tempo di Gesù la Festa aveva fortissime connotazioni messianiche; l’asservimento a Roma era divenuto impossibile, e quelle capanne ridestavano la memoria e la speranza che di nuovo Dio avrebbe liberato il suo popolo per farlo “abitare in una dimora di pace, in abitazioni tranquille, in luoghi sicuri” (Is 32:18). Gesù vi giunge “di nascosto”, come un segno: la precarietà della capanna allude, infatti, alla sua carne, nella quale si cela la sua divinità: “E il Verbo si fece carne e costruì la sua “skēnē” (la sua tenda) in mezzo a noi”. La tenda era il luogo dove riposarsi durante il raccolto e durante il cammino dell’esodo; ciò significa che proprio la carne costituisce il luogo dove sostare per riposarsi e riprendere le forze.
Ma essa è segnata dalla precarietà, è un’orma sul cammino, non è l’origine e non è il destino della vita; non ne è il sostegno, e nemmeno ciò che le dà senso e gioia. Fermarsi alla carne conduce ad ucciderla: una relazione che si ferma ad essa e non cammina verso il suo compimento, si risolve, inevitabilmente, in un voler possedere l’altro, in una conoscenza parziale attraverso la quale imprigionarlo e gestirlo. Come è accaduto a coloro che non hanno accolto Gesù, inciampando sulla tenda visibile della sua carne “decidono di arrestare” l’amore. Ai loro occhi, Gesù era troppo uomo, troppo “comprensibile”… Il Messia che attendevano, invece, avrebbe liberato il popolo dal giogo dei romani; con Lui sarebbe finito il tempo dell’attesa e della precarietà, insomma, si sarebbero smontate le capanne… E invece, ecce homo, ecco l’uomo. Come tutti, debole, fragile e precario. Anche Lui in una capanna, la sua vita come quella di ciascuno di noi. Per questo non può essere il Messia: Nazaret, la Galilea, niente studi, niente lignaggio, neanche un sacerdote, un rabbino tra i parenti!
Lo conosciamo fin troppo bene. Non è di Lui che abbiamo bisogno, ma di forza, intelligenza, programmazione e tanti bei miracoli a risolvere le nostre sofferenze. E così accade anche a noi, di fronte alla storia. Le tragiche notizie che ci annunciano il terrorismo alle porte di casa ci impauriscono, perché la morte può arrivare improvvisamente. Siamo accerchiati, viviamo nella precarietà, proprio come nelle tende in mezzo al deserto, e ci ribelliamo e perdiamo la pace. Abbiamo dimenticato, o forse non l’abbiamo mai saputo, che proprio questo di oggi, con questa famiglia, con questo lavoro o questo licenziamento, con questo carattere e questo corpo, con questa malattia e con questo dolore, è il deserto da attraversare per giungere alla pienezza. Non c’è altro cammino perché il deserto, in Dio, è già libertà! Ma occorre camminarci con Lui, che si è fatto carne proprio per essere con noi nella stessa tenda. Essa è il luogo dove accoglierlo, conoscerlo e abbandonarci a Lui. Ma noi invece ci scandalizziamo perché pensiamo che, per salvarci, il Messia debba venire chissà da dove, dal pianeta fantastico che sogniamo divenga la nostra vita.
Invece Gesù bussa alla nostra porta con una carne identica alla nostra, senza bacchetta magica, ferito come noi, umiliato e malato, senza lavoro e precario. Ma proprio questa è la Buona Notizia, la Verità! Dio è “nascosto” nella nostra vita per celebrare con noi la gioia della Festa! Oggi, nel nostro deserto un Uomo che è Dio viene a rendere divina ogni precarietà. Se lo accogliamo nella nostra tenda farà sua ogni lacrima, angoscia, dubbio, paura e sofferenza. Senza cambiare una virgola del deserto lo trasformerà in un Giardino dove uscire per “raccogliere” i frutti maturi del suo amore. L’amore, ecco la libertà che genera la gioia. Per donarci questo amore “il Padre ha inviato il Figlio”! Perché l’amore possibile anche nel deserto trasforma il fallimento più doloroso in una gioia straripante. E oggi possiamo amare perché Dio che “veritiero” ci ama sino a farsi ospite nella nostra stessa tenda!
In essa depone la sua vita più forte della morte, nella quale possiamo camminare nella storia dura e segnata dalla sofferenza senza perdere la pace e la certezza della fede anzi, pregustando nell’amore, la gioia del Cielo.