CON CRISTO NON SUBIAMO LA VITA, MA LA SPENDIAMO DA PROTAGONISTI
Accade in modo palese in questo tempo di coronavirus, l’incapacità di analizzare il male, di discernerne le origini, di combatterlo. Anzi, il male è spesso chiamato bene e il bene considerato male. Mentre i guru che sanno tutto di tutto spuntano come funghi. Ovunque sembra regnare la confusione, con scampoli di Verità affermati come assoluti. Ma Dio non si e’ fatto carne, non e’ entrato nella morte, non e’ risorto per dare una pacca sulle spalle dell’umanità, un incoraggiamento e una consolazione di marmellata, una soluzione a buon mercato. C’e’ di mezzo salvezza e condanna per “ogni creatura”. Dimenticare il dramma che costituisce la vita dell’uomo, la reale possibilità di perdere o salvare la propria anima è forse il rischio piu’ grande che corre la Chiesa. Se essa non freme di zelo e compassione autentiche per “ogni creatura”, compromette la sua missione.
La Chiesa è mandata ad annunciare il Vangelo, custodendo il deposito della fede che si fa visibile attraverso segni concreti e inequivocabili negli apostoli e in chi accoglie il loro annuncio: “Evangelizzare, infatti, è la grazia e la vocazione propria della Chiesa, la sua identità piu’ profonda. Essa esiste per evangelizzare, vale a dire per predicare ed insegnare, essere il canale del dono della grazia, riconciliare i peccatori con Dio” (Paolo VI, Evengelii nuntiandi). Gesù è risorto e dal Cielo accompagna i discepoli “dappertutto” agendo con loro, autenticando la loro parola con i segni celesti che svelano la presenza di Dio. Sono segni soprannaturali, opere, prodigi, miracoli che l’uomo, per quanto onesto, buono, rispettoso non può compiere. Su di essi vi è, inconfondibile, il copyright di Dio. Opere di Dio nella carne debole degli uomini, che svelano la loro natura celeste. Di conseguenza, naturalmente, chi crede al Vangelo opera quanto esso annuncia; e’ passato dalla morte alla vita e ogni sua opera ha il sapore del Cielo, come un aereo che supera la barriera del suono, essa oltrepassa la barriera della carne e della corruzione. Il veleno che uccide, la condanna di chi non crede, non reca danno a chi ha oltrepassato la soglia del sepolcro. Il veleno dell’invidia, del rancore, del giudizio, del male, non può nulla in chi crede. Gli apostoli passano indenni nelle fiamme delle persecuzioni, la loro fede vince il mondo. Attraverso di essa giunge agli uomini la stoltezza della predicazione, e coloro che accolgono l’annuncio degli apostoli ricevono gratuitamente la loro stessa fede. Parlano la nuova lingua del Vangelo, radice incorruttibile dell’amore e vincolo dell’unita’, i segni offerti al mondo perché possa credere.
Così, la stessa fede che muove gli araldi del Vangelo, irrora la vita di chi lo accoglie, ed essa si fa visibile come un sigillo nei segni che l’accompagnano. Esattamente gli stessi segni accompagnano la fede di chi annuncia e di chi crede: quello che gli apostoli predicano e mostrano appare in coloro che accolgono e credono. I segni di cui ci parla il Signore non si possono pianificare in un consiglio pastorale, preparare nelle riunioni delle Conferenze Episcopali. Non si studiano. Sono miracoli, saette che trafiggono il banale grigiore che si abitua a tutto. Gesù non ha frequentato un corso su Dio, non lo ha conosciuto all’università, fosse anche la Gregoriana; Gesù era, semplicemente, suo Figlio. Così e’ di ogni figlio nel Figlio, di ogni cristiano. Così e’ per la Chiesa che attraversa i secoli con lo zelo appassionato che freme di compassione, e la spinge ad andare dappertutto, nella consapevolezza che ogni evento che la riguarda, ogni persecuzione, ciascun istante della vicenda concreta dei suoi apostoli, è legato ed è favorevole e contribuisce al bene delle anime e alla missione di annunciare il Vangelo. Nulla della nostra vita è fine a se stesso, perché tutto è in funzione della missione alla quale siamo chiamati. Il veleno che oggi ciascuno di noi dovrà bere – l’incomprensione del marito, la ribellione del figlio, la malattia, la precarietà economica – è il segno con il quale il Signore accompagna e sostiene e certifica la nostra fede e quella di coloro ai quali siamo inviati. Anche oggi prenderemo in mano il serpente antico, il seduttore di tutta la terra, la menzogna che che avvelena la vita di ogni uomo, e lo renderemo innocuo in virtù della fede, per noi e per chi ci è accanto. Parleremo lingue nuove, la lingua dell’amore che solo in Cielo si parla, quella che supera le grammatica della carne con i suoi limiti per distendersi sulle declinazioni che raggiungono le debolezze, le sofferenze, le ansie e le speranze di chi ci è posto accanto senza il filtro dei nostri criteri, senza le correzioni che l’affettività vorrebbe apporre alle parole che descrivono la loro vita. Guariremo i malati, sì, in virtù della fede toccheremo il cuore ferito di chi ci è vicino deponendovi la misericordia di Dio.
La Chiesa annuncia il Vangelo con i segni della Croce, gli stessi compiuti da Mosè con il suo bastone dinanzi al Faraone; non ve ne sono altri, perché il Vangelo è la buona notizia che rivela la sapienza della Croce. La nostra storia concreta, infatti, è un segno materno per i figli, i coniugi, i fidanzati, gli amici, i colleghi. Tutto è segno di un amore che vince la morte e il peccato, e che trasforma la condanna in Grazia. Anche oggi siamo mandati dappertutto, in ogni istante della nostra giornata, e nulla ci è indifferente, da nessuna situazione dobbiamo scappare. Niente ci cade addosso improvviso, perché è il Signore che ci invia a vivere ogni evento da risorti con Cristo; non subiamo la vita, la affrontiamo da protagonisti, come la missione più importante: liberare i prigionieri, cancellare la condanna che pesa su ogni uomo, spalancare per tutti le porte del Cielo, il destino di felicità eterna che il Vangelo annuncia: “il mondo, che nonostante innumerevoli segni di rifiuto di Dio, paradossalmente lo cerca attraverso vie inaspettate e ne sente dolorosamente il bisogno, reclama evangelizzatori che gli parlino di un Dio, che essi conoscano e che sia a loro familiare, come se vedessero l’Invisibile” (Paolo VI).