NELLA CHIESA NOSTRA MADRE NON SIAMO PIU’ ORFANI MA FIGLI DI DIO
Chi conosce il Padre ha la libertà di tornare sempre alla fonte e origine del proprio essere, di gettarsi tra le sue braccia con semplicità, fiducia filiale, umile audacia, nella certezza di essere accolto con misericordia. Come un bimbo che fa i capricci, ma tra le braccia del papà.
“Noi non possiamo volere cosa alcuna, se essa non è conosciuta” (San Tommaso). Così, per chiedersi “cosa fare per ereditare la vita eterna” occorre crederci, conoscerla e desiderarla. Ma forse anche noi “ci alziamo” con superbia per “mettere alla prova Gesù” sulla questione decisiva per la nostra vita.
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Gesù ci invita allora ad aprire la Torah e cercare “Cosa vi è scritto”. Con il Dottore della Legge, probabilmente troveremo le parole dello Shemà, l’amore a Dio e al prossimo, sintesi della Legge. E’ la risposta giusta, chi “fa questo vivrà”. Gesù non dice che se ameremo erediteremo poi la vita eterna, ma che amando si comincia già a sperimentarla. La prospettiva è rovesciata: non si tratta di “un fare” a cui spetta una ricompensa, perché desidera ereditare la vita eterna solo chi ha già cominciato a gustarla.
L’eredità, infatti, non si conquista, è un diritto naturale, spetta al figlio come un dono dell’amore paterno. Per un israelita l’eredità consisteva nella Terra, il compimento delle promesse di Dio contenute nell’Alleanza stipulata sul monte Sinai: “Mosè prese il libro dell’alleanza e lo lesse alla presenza del popolo. Dissero: «Quanto il Signore ha ordinato, noi lo faremo e lo ascolteremo!». Prima fare e poi ascoltare, ma la contraddizione è solo apparente: si ascolta quando si ama; e si ama Dio quando si ha l’esperienza della sua misericordia e ascoltarlo diviene un bisogno “vitale”.
Ma qui inciampiamo tutti perché, scoprendo di non saper amare, capiamo di aver dimenticato l’amore che ci ha salvato tante volte; allora iniziamo a “giustificarci” chiedendoci “chi sia il nostro prossimo”.
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“I Farisei escludevano i non farisei; gli esseni pretendevano che si odiassero tutti i “figli delle tenebre”; i rabbini dichiaravano che si dovevano “sotterrare” tutti gli eretici, i delatori e gli apostati e non estrarli da sotto terra” (J. Jeremias). Lo scriba prova Gesù per vedere chi considera come prossimo e trasgredisce la tradizione: per mostrarsi giusto fa di Gesù un eretico;come accade a noi quando selezioniamo accuratamente il prossimo da amare, mentre coviamo rancore da anni per la suocera.
Ma Gesù smaschera l’inganno rivelando che il prossimo da amare come se stessi è proprio il samaritano: “Chi ti sembra sia stato il prossimo di colui che è incappato nei briganti?”. Quell’uomo “gettato mezzo morto” è lo scriba e ciascuno di noi, mentre il suo prossimo è il samaritano, un eretico! E il samaritano è Gesù, che ci ha amato al punto di farsi maledizione e morire come un bestemmiatore ed eretico per noi, eretici mille volte al giorno; allontanandoci da “Gerusalemme”, siamo incappati negli inganni del demonio, il “brigante” che ci ha “spogliato” di tutto, lasciandoci “mezzo morti” sul ciglio della vita: “All’uomo che giaceva in tali condizioni portò aiuto il nostro Samaritano, cioè Gesù, che i Giudei chiamarono Samaritano, che significa custode” (S. Agostino).
Il “sacerdote” e il “levita” non si avvedono delle sofferenze dei propri fratelli, perché chi non riconosce il prossimo nel Samaritano, non lo potrà vedere nel fratello e proprio coloro che dovrebbero custodire il popolo, come una madre e un padre, un marito e una moglie, non si curano del fratello: “siamo disorientati, non siamo più attenti, non curiamo, non siamo più capaci neppure di custodirci gli uni gli altri… siamo caduti nella globalizzazione dell’indifferenza. Ci siamo abituati alla sofferenza dell’altro, non ci riguarda, non ci interessa, non è affare nostro” (Papa Francesco, Omelia a Lampedusa).
Al “samaritano”, invece, interessa la sofferenza, conosce il dolore dal di dentro, sa che cosa significa essere rifiutato, come Gesù che ha conosciuto sino in fondo le conseguenze del male. Lui è il buon pastore che prende sulle spalle la pecora perduta per ricondurla alla “locanda”. Si “prende cura” di lei con il “vino”, il sangue sgorgato dalle sue ferite, e “l’olio”, il suo Spirito Santo. Paga il prezzo del nostro riscatto con la sua vita, le “monete” lasciate al locandiere. “Ci affida alle cure” della Chiesa, la madre premurosa che per noi “spende più” di ogni ricchezza umana, in attesa del “ritorno” del Signore che la sazierà di consolazioni.
Gesù “scende” anche oggi nel suo giardino cercando l’amata e il suo nardo, come quando “Israele emise la sua fragranza davanti al monte Sinai e disse: Quanto il Signore ha detto, noi lo faremo e lo ascolteremo” (Cantica Rabah 1,12.1). E’ paradossale, ma dalle sue ferite, l’uomo “mezzo morto” ha emesso la sua fragranza, e di quella povertà Gesù si è innamorato. Così anche noi, proprio quando siamo prostrati e incapaci dinanzi al matrimonio che fa acqua, ai figli che si ribellano, alla disoccupazione e alle malattie, feriti dal peccato, possiamo fare e ascoltare: quando siamo deboli e l’uomo vecchio e orgoglioso è ormai sepolto, siamo forti perché caricati sull’unico che ha compiuto sino in fondo lo Shemà.
Per questo Gesù è l’unico Dio, l’unico Signore, da amare con tutto il cuore, con tutta la mente, e con tutte le forze. In Lui ogni uomo diviene prossimo, l’eredità dove l’amore a Cristo si traduce spontaneamente in amore all’uomo, che rende ogni istante, ogni pensiero, ogni moto del cuore, ogni opera delle nostre forze un frammento della vita eterna.