OCCHI DI FEDE PER DISCERNERE LE OPERE DI VITA ETERNA COMPIUTE NEL NOME DI CRISTO
AUTORE: don Antonello Iapicca FONTE: Newsletter SITO WEB CANALE YOUTUBE
Gesù aveva appena preso un bambino e, postolo in mezzo ai discepoli, lo aveva abbracciato, per insegnare l’unico modo con cui si accoglie Lui e Colui che lo ha mandato. Ma niente, non c’era verso; i suoi discepoli continuavano a non capire. Erano con Lui da tempo, ma non lo avevano ancora accolto. Camminavano con Gesù, come noi, ma i loro criteri erano ancora mondani. Gesù, che, secondo la mentalità orientale era presente nel suo “nome”, era per loro il “brand” che distingueva il gruppo, nella perfetta mentalità del mondo. Del resto i discepoli, invece di pregare, discutevano e litigavano proprio per scalare la “società”, come si fa in qualunque impresa, per poi competere con le altre. E così, proprio loro che si indignavano per “uno che scacciava i demoni nel nome di Gesù”, non riuscivano a scacciarli.
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Quel “nome”, pronunciato da loro, non aveva “potere” perché attraverso di esso cercavano la propria gloria; non era “dynamis” perché si erano installati ed erano entrati in competizione tra loro e con gli altri raggiunti dalla Grazia. Avevano rotto la comunione in nome della carne, e così avevano finito per sbarrare le porte della Chiesa, che dovrebbero restare aperte giorno e notte per accogliere tutti. E’ ciò che accade a chi, come spesso anche noi, usa della Chiesa e della comunità per se stesso. Si può stare nella Chiesa con la mentalità del mondo, cercando di raggiungere i propri obbiettivi, schiavi dell’autoreferenzialità.
Si può essere accanto a Cristo e ai fratelli ma seguire la volontà del demonio. L’uomo è stato creato per amare, per aprirsi all’altro e donarsi nella comunione; ci definisce l’appartenenza a Dio e ai fratelli, la comunione della Chiesa. Ma il demonio, principio di divisione, ha seminato nei cuori l’invidia e la superbia che spinge a “vedere” l’altro come un nemico. Esattamente come i discepoli hanno “visto” quello che scacciava i demoni in nome di Gesù. E così, proprio loro che non ci riuscivano, “impedivano” a chi “non era dei nostri” di lottare con il male e vincerlo in Cristo.
Ecco il punto. Quell’uomo non seguiva loro! Per questo era da tagliare, escludere, disprezzare, scandalizzare, come dirà poi Gesù. I discepoli avevano fatto della comunità una cosa loro, mondana, nella quale vigevano le regole e gli usi di ogni gruppo umano, trasformandola in un luogo di schiavitù. Come accade spesso alle nostre comunità e alle nostre famiglie, nei rapporti tra moglie e marito, tra genitori e figli, tra fidanzati e amici, al punto da assomigliare al board di una società: bisogna produrre i risultati prefissati, raggiungere determinati target, incrementare sempre i guadagni; solo così ci sono i dividendi e la comunità è salva, visto che ha ragione di esistere solo in funzione di questi risultati. Essere “dei nostri” significa essere ammessi nel proprio cerchio magico, tutto carne e passioni. Implica seguirsi a vicenda, e per questo litigare e giudicarsi, invidiarsi ed essere gelosi.
Perché chi segue un uomo va dietro ai suoi limiti, e che fallimento diventa allora la vita. Che stoltezza quando un prete vuole farsi seguire e lega a sé le persone, rubandole a Cristo di cui dovrebbe essere l’amico che gioisce nel diminuire perché chi possiede la sposa è lo Sposo. O quando un padre e una madre spingono i figli ad essere come loro, a ricalcarne le orme frustrando le loro personalità e disprezzando le debolezze; non si accorgono che li scandalizzano allontanandoli da Cristo, che li ama e li ha scelti peccatori e liberi, unici e irripetibili. O un fidanzato quando cerca di assorbire la fidanzata nel proprio tempo, nei gusti e nei desideri, obbligandola a servire le proprie concupiscenze, dando inizio così alla rovina certa del matrimonio.
La corruzione non può che generare corruzione. E disprezzo per i piccoli; chi si illude di dover essere seguito, chi scrive leggi ispirate dagli slogan, chi partorisce ideologie non si accorgerà dei piccoli che muovono i primi passi. Sarà geloso del proprio posto e guarderà tutti come a dei potenziali usurpatori. Per questo Gesù aveva preso un bambino e lo aveva abbracciato: per mostrare profeticamente che cosa è la Chiesa. Essa è una comunità abbracciata da Cristo, dove ciascuno è amato così come è, nella sua piccolezza, nelle sue miserie. Nella Chiesa è preservata la libertà di ciascuno, anche di sbagliare, perché tutti seguono Cristo che sale alla Croce, per entrare con Lui nel Cielo, in un’appartenenza nuova che trascende la carne. Nella Chiesa non si è “dei nostri”, ma tutti sono suoi, riscattati dal sangue di Cristo. Non c’è omologazione ma comunione nella diversità.
Per questo Giovanni, pur con le sue turbolenze di “figlio del tuono”, con la sua irruenza, dà voce a una questione sempre viva nella Chiesa: che fare con la debolezza che ci scandalizza e, soprattutto, con la diversità che impaurisce, le irruzioni impreviste dello Spirito? Giovanni è immagine del carisma, dei tuoni dello Spirito che irrompono e fanno tremare l’istituzione quando essa si è troppo installata e mondanizzata. E’ vero che anche lui “ha vietato” l’operare di quell’uomo, ma è soprattutto vero che lui e non altri sottopone la questione a Gesù; non è una semplice affermazione la sua, è quasi un lasciare in sospeso la cosa, nell’attesa di un chiarimento. Giovanni quasi si identifica con quell’uomo che non è con loro, sembra che qualcosa lo incalzi dentro, ed è come se chiedesse a Gesù: “Maestro” – e così gli riconosce l’autorità per insegnare – “glielo abbiamo vietato”, ma è giusto o no? In fondo non sta con noi, è un irregolare. Forse è un bambino che sta balbettando la sua fede, ma ha creduto, e nel Tuo nome ha vinto il male.
Nella sua vita si vedono opere di vita eterna… Proprio in virtù di questo segno Gesù risponde a Giovanni e ai discepoli, alla Chiesa di ogni generazione e a ciascuno di noi: “Non glielo proibite, perché non c’è nessuno che faccia un miracolo nel mio nome e subito dopo possa parlare male di me. Chi non è contro di noi è per noi”. Si mette con loro, al centro della comunità, con autorità. E ci detta la linea, il criterio per discernere, la luce per camminare. Quell’uomo è immagine dei figli che non seguono le nostre regole, come di chiunque cammina al nostro lato senza seguire le nostre idee, come dei piccoli che hanno cominciato a credere in Gesù, come dei carismi che visitano e fanno tremare la Chiesa. C’è un criterio per discernere: il “nome” di Gesù ha potere in lui? Perché se i fatti testimoniano dell’opera soprannaturale di Dio, allora è di Cristo, “non potrà rinnegarlo”.
La Chiesa non segue un ideale o una moda; non difende la maglia di una squadra; non si identifica in un inno nazionale e una bandiera; non si irrigidisce in schemi atrofizzati e immutabili; non schiaccia i piccoli obbligandoli a diventare come esigono i modelli umani. La Chiesa è il tempio della libertà, dove ciascuno segue Cristo che ha infranto ogni schema, ha accettato d’essere cacciato e crocifisso fuori di Gerusalemme, come un bestemmiatore eretico da estirpare dal Popolo. Dio, capite?, Dio è quell’uomo fuori del gruppo dei discepoli, è Gesù vivo nel suo “nome” che scaccia i demoni. L’invidia dunque e la gelosia possono “vietare” a Cristo di operare miracoli, come accadde a Nazaret a causa dell’incredulità dei suoi compatrioti. Non è cambiato nulla nella tua famiglia? Forse stai vietando a Cristo di scacciare il demonio, magari giudicando e frustrando tuo figlio, o disprezzando tua moglie o tuo marito.
Non è difficile se ci muove la carne… Dio, infatti, per operare lo straordinario appare sempre dove meno ce lo aspettiamo, nell’ordinario più insignificante e nei piccoli, a Betlemme come nella vita di tuo figlio, a Nazaret come nel carattere di tuo marito, sulla Croce, fuori da ogni criterio buonista e religioso. Dio si è fatto il più piccolo, l’ultimo tra gli ultimi, perché nessuno fosse escluso. Se si esclude il piccolo, l’insignificante, chi sfugge ai nostri criteri, si esclude Cristo, e quindi il Padre, e quindi non c’è più posto neanche per noi. Se si “impedisce” ai carismi di operare miracoli “nel nome di Gesù” si stringe un cappio al collo della Chiesa in una superbia suicida che lascia fuori i più deboli, quelli per i quali Dio suscita proprio i carismi. Allo stesso modo se i carismi si chiudono in se stessi rimirandosi allo specchio e autocelebrandosi sfregiano il dono ricevuto per il mondo e tradiscono il “nome di Gesù”. Per questo, nelle parole successive, il Signore metterà in guardia i discepoli dallo scandalizzare i piccoli che credono in Lui.
E’ meglio “tagliare” qualcosa di se stessi, circoncidere la propria carne, che ferire la comunione; “chi non è contro Cristo e la sua Chiesa è per noi”, è a nostro favore, ci aiuta a uscire da noi stessi, a convertirci, ad amare Cristo e “scacciare il demonio, l’unico autentico avversario.